Se una sessantina di anni or sono la televisione statunitense ci portava Ai confini della realtà, ovvero nella Twilight Zone ideata da Rod Serling, dove ogni sogno e incubo tra la fantascienza e il thriller soprannaturale era possibile, dal 2013 un anziano signore con una maschera gialla ci invita nel suo piccolo “Teatro dell’Oscurità” (Theatre of Darkness) in Yamishibai, la serie anime prodotta da ILCA e disponibile integralmente su Crunchyroll, inclusa l’ultima stagione (la dodicesima) uscita a gennaio 2024.
Il paragone con la gloriosa serie americana su cui si misurarono scrittori come Ray Bradbury e Richard Matheson è ispirato anche dalla natura autoconclusiva e dalla breve durata degli episodi, anzi brevissima nel caso di Yamishibai, circa quattro minuti (esclusa una stagione live-action) ciascuno.
Tanti bastano per (ri)portarci ad ogni visione in un reame di malefici, possessioni, fantasmi e altro ancora che attinge al patrimonio di leggende del folklore nipponico (ma non solo). Riducendo all’osso la struttura narrativa archetipica dell’horror soprannaturale, dove i contesti più familiari (case, scuole, famiglie) diventano stranianti e minacciosi, e da alcune (spesso incaute) scelte dei singoli non c’è ritorno.
Lo confermano le dodici puntate più recenti, tra segreti e presenze nascosti in nuove abitazioni (Basta non aprirlo, La targhetta), macabre messe in scena per una figlia morta che forse non lo è (Giocare alla famiglia, che potrà piacere ai fan di Ari Aster), vacanze che schiudono cerimonie e oggetti pericolosi (Il jizo in fondo al mare, Il rito sfoltisci bambini) e via così. Nemmeno gli animali domestici ci (e si) salvano, come dimostra Kuromame. Ed emergono impietosamente le nostre debolezze, dalla scarsa fiducia nel prossimo all’incapacità di accettare una separazione.
Lo stile dei disegni si è fatto più eterogeneo dai tempi del debutto, ma a garantire compattezza all’insieme c’è sempre la tecnica di animazione, con movimenti ridotti al minimo che rimandano alla staticità delle figure del kamishibai, il teatrino di strada popolarissimo nel Giappone degli anni ’30 e del Dopoguerra, prima che sopraggiungesse la televisione (un cerchio che ora si chiude, dunque).
Accettando le regole del format (compresa un’inevitabile, e almeno in parte voluta, ripetitività della struttura) quelli di Yamishibai sono affascinanti viaggi in pillole nella storia e nell’immaginario del Paese del Sol Levante, in grado di offrire brividi con espedienti noti ma sempre efficaci (ad esempio i jump-scare, a volte smentiti a volte mantenuti) e suggestioni che rimandano, tra le altre cose, al J-Horror di Kyioshi Kurosawa e Hideo Nakata (quello di Ring, per intenderci).
Ma agli spettatori (e lettori) italiani potrebbe venire in mente un altro grande autore del perturbante, Dino Buzzati, anche lui a modo suo animatore di un personale regno di ombre, dove in poche righe (e un linguaggio apparentemente semplice e lineare quanto evocativo) si viene proiettati dalla quotidianità ad altre dimensioni in grado di mettere in crisi le nostre certezze e, magari, riflettere sulle nostre paure. Basti pensare al racconto Sette piani dello scrittore, e a come gli ospedali siano luoghi molto frequentati in Yamishibai (da Zanbai a Divieto di visite).
Insomma, per chi ama il genere, il consiglio è di immergersi in questo piccolo teatro: una stagione intera per volta, come una giornata di novelle del Decameron, oppure per singoli episodi, approfittando anche delle micro-pause nella routine. Degli impegni socio-lavorativi, e da quella che siamo soliti definire realtà.