Mia (2023), il precedente film scritto e diretto da Ivano De Matteo, aveva colpito il pubblico per la sensibilità, ma anche la crudezza con cui il regista aveva saputo trattare il tema delle relazioni tossiche e del revenge porn tra adolescenti, soprattutto attraverso la relazione tra un padre, interpretato da Edoardo Leo, e sua figlia, Greta Gasbarri. A due anni di distanza De Matteo con Una figlia, al cinema dal 24 aprile con 01 Distribution, torna a scandagliare questo rapporto attraverso la lente di un grave fatto di cronaca, in un racconto duro e tenero al tempo stesso, interpretato da Stefano Accorsi nel ruolo del padre e la giovane Ginevra Francesconi in quello della figlia.
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Una figlia, trama
Pietro (Stefano Accorsi) è un uomo di quarant’anni, è vedovo, vive con sua figlia, Sofia (Ginevra Francesconi) di 17 anni e la sua nuova compagna, Chiara (Thony). Pietro e Sofia, ciascuno a suo modo, cercano ancora di sanare il dolore della scomparsa della madre della ragazza, ma le cose non vanno come loro vorrebbero. Sofia non accetta la presenza di Chiara e compie un gesto che rovinerà per sempre le vite di tutti.
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“Quando ho partecipato agli incontri col pubblico per il mio film precedente Mia in molti chiedevano: ma il padre del ragazzo cattivo? Cosa fa? Come reagisce? Gli rimane vicino o lo abbandona? Sotto il segno di questi interrogativi è nato Una figlia”, dice Ivano De Matteo. Autore della sceneggiatura insieme alla compagna Valentina Ferlan, il regista, intervistato da Ciak, racconta lo sviluppo del film, liberamente tratto dal libro “Qualunque cosa accada” di Ciro Noja (edito da Astoria Edizioni), e il dolore e la tenerezza che questa storia cela in sé.
Quali sono le domande etiche, profonde, di fronte alle quali questo film ci pone?
“Ce ne sono tante, sia come autore che come genitore me ne pongo tante. Come può arrivare una ragazza a fare una cosa del genere? Oppure quanto può il carcere servire a una ragazza così giovane? Quante possibilità di reinserimento nella società ci sono? Ma noi cerchiamo sempre di partire dai rapporti interpersonali, in questo caso quello padre-figlia. È la cosa che ci interessa veramente di più, avendo anche dei figli a casa. È un piacere scrivere i dialoghi, chiediamo ai nostri figli: ‘Che cosa dici, come risponderesti qua?’. In questo caso poi siamo dovuti andare molto più sul tecnico, perché ho avuto bisogno di avere un parere tecnico per lavorare in un carcere minorile”.
C’è una storia in particolare a cui lei si è ispirato, al di là del libro?
“Abbiamo scelto questo tipo di reato, ma in realtà avrebbe potuto essere anche un altro, ce ne sono tanti nei fatti di cronaca ultimamente. Quello che ci ha dato il là sono state le dichiarazioni del papà di Erika rispetto al caso di Novi Ligure, quello di Erika Omar. C’era questo papà rimasto solo con questa ragazza che andava a fare i colloqui in carcere e diceva: ‘Che posso fare? Mi è rimasta soltanto lei’. Abbiamo cercato di capire quali fossero le dinamiche psicologiche di quell’uomo”.
Lei ha seguito questo film dal suo nascere naturalmente fino alla fine, perché ne ha anche co-sceneggiatore con Valentina Ferlan, qual è stata la parte più difficile nell’affrontare questa storia?
“La parte tecnica, perché noi scrivevamo, ma quando andavo a parlare veramente con i personaggi bisognava cambiare alcune cose. Io sono abbastanza paranoico su questo. Anche il giudice ci ha scritto una sentenza. Per quanto riguarda invece il girato, è stato incontrare i ragazzi e le ragazze dentro al carcere minorile. Sia nel CPA, il centro di prima accoglienza, che nel carcere. Abbiamo girato proprio all’esterno del vero centro di prima accoglienza di Roma. Da lì poi c’è tutto l’altro percorso, la comunità… È stato un percorso molto duro, perché abbiamo incontrato tanti ragazzi, che ci hanno dato anche molti consigli su come girare alcune scene”.
Recentemente ha avuto molto successo una serie di tv intitolata Adolescence, che racconta proprio di un crimine commesso da un minore, in questo caso contro una sua coetanea. Dalla serie si evince che in Inghilterra c’è una grandissima attenzione verso i minori, il ragazzo, nel momento in cui viene arrestato, riceve una serie di accortezze, mentre in Una figlia, Sofia inizialmente è trattata in maniera un po’ brusca e rude. Lei pensa che anche le condizioni con cui vengono trattati i minori al momento dell’arresto siano un po’ discutibili?
“La legislazione inglese è totalmente diversa dalla nostra, per esempio da loro a 10 o 12 anni possono andare in carcere. La nostra legislazione prevede che si possa entrare a 14 anni. Io mi sono rifatto alla legislazione italiana, chiaramente. La polizia penitenziaria di un IPM in questo caso, ma anche la polizia quando l’arrestano ha inizio, anche se si tratt di minori a è difficile che si comporti con gentilezza. Comunque non è un Luna Park, perché se dessimo l’idea che si va dentro un Luna Park, qualche minore potrebbe pensare che sia tutto più tranquillo. Si entra sempre dentro un istituto penale e io ho dovuto spingere un po’, ma a volte forse la realtà è anche peggio, i fatti di cronaca lo dimostrano”.
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Lei sta scandagliando tantissimi aspetti della relazione genitori-figli. Quanto è doloroso fare questo percorso e quanto invece è catartico?
“È doloroso e quando scriviamo, lo sentiamo molto. Infatti con la mia compagna abbiamo deciso di fermarci per un po’ rispetto a questi temi. Ci stiamo proiettando su altri racconti, una commedia amara, una critica tagliente, sul genere della vecchia commedia italiana. Quando scriviamo siamo veramente immersi nella storia e ci fa male, anche perché abbiamo dei ragazzi dentro casa ed è pesante. Anche entrando nel centro di prima accoglienza o nel commissario, nel carcere, nella comunità di recupero, si vedono tante realtà: la ragazza che esce dal carcere, quella che è stata tolta ai genitori, quella che ha crisi isteriche. È un mondo che fa molta tenerezza e in cui sono entrato in punta di piedi e ringrazio tutti quelli che mi hanno permesso di entrare”.