Apertura (in concorso) attesissima di un’altrettanto sospirata 74esima edizione del Festival di Cannes, Annette è la sesta prova di Leos Carax nel lungometraggio, a quasi dieci anni di distanza Holy Motors (che proprio sulla Croisette aveva vinto il Prix de la Jeunesse). Una lunga e travagliata produzione e un esito destinato probabilmente a dividere, ma nessuna delle due cose è una novità per il regista francese. Che col suo primo film in lingua inglese (distribuito in Italia da I Wonder Pictures, Koch Media e Wise Pictures) si addentra nel territorio del musical, genere emblematico come pochi (e forse nessuno) dello spettacolo che sublima la realtà.
Non a caso, al centro c’è la crisi dell’artista e dell’identità (maschile) nella società contemporanea, proseguendo un discorso già ravvisabile nelle vorticose metamorfosi del precedente lavoro di Carax. In Annette, però, tutto appare da subito più esplicito e leggibile. Ma, piuttosto che un arretramento verso moduli convenzionali, ci sembra che questa sia la nuova tappa di un percorso che, in quarant’anni, non ha mai rinunciato a (ri)mettersi in discussione.
A segnare un’ulteriore soluzione di continuità, il protagonista e produttore (con Paul-Dominique Win Vacharasinthu e Charles Gillibert) Adam Driver (in luogo dell’attore feticcio di Carax, Denis Lavant), nel ruolo di uno stand-up comedian che entra sul palco in accappatoio come un pugile prima di un incontro. Henry, noto al suo pubblico anche come “The Ape of God”, la Scimmia di Dio, vuole «disarmare», il suo pubblico. Il suo rapporto con chi lo guarda e ascolta è all’insegna del più radicale, provocatorio antagonismo, in netto contrasto con quello della moglie, la cantante lirica Ann (Marion Cotillard).
Star della Los Angeles odierna, Adamo ed Eva (come sembrano suggerire le mele addentate da lei) nell’Eden della passione e della creatività benedetta (temporaneamente) dal successo. Coppia di opposti che si attraggono alla perfezione: al termine delle rispettive performance, parlando degli spettatori, lui dice «li ho distrutti», lei «li ho salvati». Ma a partire dalla nascita di una figlia, la piccola Annette, che ha le fattezze di un pupazzo di legno dal volto scimmiesco, l’equilibrio tra i due va incrinandosi, come la carriera di Henry.
Le conseguenze saranno catastrofiche, e coinvolgeranno anche il proverbiale terzo (o quarto?) incomodo, un direttore d’orchestra (Simon Helberg) innamorato di Ann. Tutto (o quasi) in musica, con le canzoni degli Sparks (Ron e Russel Mael, anche sceneggiatori e ideatori del progetto) a scandire questa parabola surreale sospesa tra amore e morte, foll(i)a e solitudine, tragedia e farsa.
Dove proprio la forma del musical si rivela sorprendentemente adatta a tenere insieme le varie e contrastanti anime del cinema di Carax, dal melodramma post-romantico alla sperimentazione spinta verso il confine (e oltre) con lo sberleffo agli spettatori meno disposti a lasciarsi andare: momenti come la canzone-richiesta iniziale So May We Start? intonata dal cast (ma dopo l’avvertenza che «sospirare non sarà tollerato durante lo show») e l’esilarante (o irritante, secondo i punti di vista) sequenza del parto, sono al contempo dentro e fuori il genere, omaggiato e pariodato, comunque in linea con la poetica del cinefilo e visionario regista.
Della filmografia di quest’ultimo ritroviamo, opportunamente rivisitati, molti temi, immagini e suggestioni: dalla famiglia di primati di Holy Motors alle peregrinazioni in moto (e crisi d’ispirazione) di Pola X, passando per gli specchi (iper)mediatici deformanti di Merde (il notiziario di gossip SBN segna e filtra ogni svolta della vicenda). Ma non è tanto e solo una collezione di citazioni per iniziati. Piuttosto, una summa sofferta di tensioni forse irrisolvibili, certamente (ancora) urgenti, e che riguardano un’intera industria e il suo immaginario: non mancano, tra l’altro, il fenomeno del #MeToo e la questione della cancel culture nel lievito di questo amarissimo bilancio sullo status dello spettacolo e della mascolinità all’alba degli anni Duemilaventi.
Una riflessione che si proietta e incide (almeno potenzionalmente) oltre la stessa schiera dei cultori del cineasta. Grazie anche a un Adam Driver al suo meglio, corpo, volto-maschera e voce (caldamente raccomandata la visione in lingua originale) di una virilità al punto di non ritorno: esibita e decostruita, patetica e aberrante, carnefice e vittima della sua dipendenza dal conflitto e dal possesso, (quindi) della sua impossibilità a dare e ricevere amore, se non quando è troppo tardi.