Tesnota, un’opera prima matura, lucida ed espressiva da colpo di fulmine: la recensione

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Tesnota

Tesnota Russia, 2019 Regia Kantemir Balagov Interpreti Atrem Cipin, Olga Dragunova, Veniamin Kac, Anna Levit Distribuzione Movies Inspired Durata 1h e 58′

In sala dal 01 agosto

LA STORIA – Città di Nalchir, Caucaso Settenrionale, 1998. Ilana (Ila), con il padre Avi, la madre Adina e il fratello David, appartiene alla coesa comunità locale ebraica. Ma il suo carattere indipendente si manifesta costantemente; adora lavorare come meccanico nella piccola officina paterna e alla corte del coetaneo Rafa, preferisce serate alcoliche e selvagge assieme a Zalim, della più numerosa “tribù” cabarda che dagli ebrei dista per religione (musulmana), usi e mentalità, che più lontano non si può (“siete gentili voi ebrei” “E voi cabardi come siete?”, “Duri…come rocce”). Eppure tutto sembra vivere in un tranquillo equilibrio, almeno sino a quando David e la fidanzata Lea vengono rapiti con richiesta di ingente riscatto. La comunità si divide anche meschinamente, il padre è costretto a vendere tutto, officina e averi, per racimolare almeno una parte della somma e l’altra dovrebbe arrivare, secondo i desideri dei genitori, combinando il matrimonio tra Ila e lo spasimante Rafa, di buona e benestante famiglia.

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L’OPINIONE – Tesnota vuol dire vicinanza. Può volersi riferire alla inestricabile rete di relazioni e sentimenti che lega un ebreo alla sua famiglia o anche allo stile di ripresa, sempre addosso come un assedio, a rubare ogni gesto, ogni espressione e anche la sua significativa assenza (la visione si allargherà al giorno e al paesaggio solo verso la fine). Di certo raramente ci è capitato di vedere un’opera prima altrettanto matura, lucida ed espressiva. Kantemir Balagov (classe 1991!) è nato proprio a Nalchik – del resto è evidente la conoscenza del tessuto politico sociale ad alta esplosività del luogo – e ha studiato cinema alla corte di Alexander Sokurov. Questo però aiuta, ma ancor non spiega; perché Balagov ha davvero scritto e girato uno dei più emozionanti film degli ultimi anni (premio Fipresci a Cannes 2017, sezione Un Certain Regard e quest’anno con Dylda ha “migliorato” vincendo il premio come miglior regista, sempre in Un Certain Regard). La storia di una “guerra” in famiglia per il proprio diritto a decidere di sé (“Non sono più nostri. Appartengono a loro stessi” è la costatazione amara e lucida della madre leonessa Adina, interpretata da una regale Olga Dragunova), all’interno di un quadro generale di teatro di guerra appena sospita o imminente (e tremenda impressione fanno i filmati dei barbari assassini da parte dei ceceni, visti dai ragazzi cabardi in un ritrovo serale, incuriositi ed entusiasti come vedessero una fiction educativa).

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Colpisce tanto la drammaticità delle passioni in lotta con le regole culturali sedimentate nei secoli, quanto l’autocontrollo di un cineasta quasi pudico a un certo punto nei confronti delle manifestazioni più eccessive; si veda come nasconda ad esempio il viso della protagonista con l’aiuto dell’asciugacapelli, mentre le viene detto: “Dovrai sposarlo”. Noi conosciamo, per tutto quello che abbiamo visto prima e capito, la rabbia e l’indignazione prigioniera che attraversa il personaggio di Ila Koft, ma lo intuiamo qui solo quasi per pura e diretta empatia. È grande cinema questo, che può realizzarsi solo grazie a una grande interpretazione: in questo caso, quella della quasi debuttante Darya Zhovnar, un concentrato di difficile equilibrio espressivo tra la consapevolezza dell’obbedienza e del dovere e la rabbia quasi ferina con cui va a sbattere e lotta contro ogni regola.