“ORANGE IS THE NEW BLACK”: SIAMO TUTTI COLPEVOLI

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ATTENZIONE: L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER

Non c’è luce. Non c’è speranza. Non c’è via d’uscita. La quarta stagione di Orange is the new black mostra senza filtri e reticenze la realtà più amara, ovvero, il totale fallimento del sistema.

Il racconto corale di Jenji Kohan diventa oscuro, plumbeo e soffocante mettendoci di fronte alle vite miserabili delle protagoniste. Se negli anni precedenti l’ironia spezzava ogni tensione, nei nuovi episodi non c’è spazio per nessuna via di fuga. La crisi economica trasforma Litchfield in una prigione sovraffollata: il budget si dimezza, i letti raddoppiano e la convivenza tra le detenute diventa impossibile. Le divisioni etniche sfociano nel razzismo più bieco tra insulti e prevaricazioni, che diventano la normalità nell’anarchia dominante. La negligenza, il menefreghismo e l’avidità fanno il resto. Chi dovrebbe rendere il carcere un luogo di rieducazione bada solo ai bilanci, trasformando le attività ricreative in veri e propri lavori forzati, oppure cerca di sfruttare ogni escamotage fiscale per risparmiare. Così invece di selezionare personale qualificato, si assumono secondini tra ex veterani e sbandati, possibilmente bianchi. Poi si offre loro una divisa che li renda intoccabili anche quando sbagliano. Anche quando uccidono.

Le proteste di Ferguson e l’indignazione per le morti di Michael Brown e Eric Garner entrano prepotentemente nel racconto. L’annullamento dei dirittti civili e la mancanza di rispetto per la vita umana sono i temi portanti della stagione. La grande qualità della sceneggiatura emerge quando racconta la brutalità della realtà carceraria tra momenti di accecante violenza, che culmina con l’addio ad una delle protagoniste, e sequenze in cui si dimostra la banalità del male. La showrunner non teme di mettere in scena la xenofobia e le laceranti divisioni di classe che giocano un ruolo fondamentale nelle vicende di Piper e delle altre prigioniere. La new entry Judy King serve esattamente a questo. La donna è una versione riveduta e corretta di Martha Stewart, popolare conduttrice americana finita in carcere per problemi con il fisco. L’alter ego di Blair Brown (abilissima nel mostrare le contraddizioni del suo personaggio) è una razzista, bianca, potente e privilegiata. Questo le permette di ricevere veri e propri favoritismi per «evitare all’amministrazione guai con i media».

Così anche il quarto potere viene aspramente criticato. La stampa watchdog non esiste più. Se un drone cattura alcune immagini del penitenziario non è per raccontare la condizione disumana delle detenute ma per scovare la star caduta in disgrazia con addosso l’iconica tuta arancione. Il gossip superficiale e futile ha il sopravvento e così quando una prigioniera muore per colpa di una guardia, nessuno indaga. Nessuno vuole davvero capire cosa è successo perché non c’è alcuna considerazione per la vittima. Il messaggio è forte e chiario: il carcere diventa una condizione mentale, se ci si blinda tra pregiudizi, omertà e interessi personali a discapito dei più deboli. Perciò il grido disperato di chi ha perso tutto si trasforma in una risata beffarda e incredula mentre uno sguardo rivolto in macchina ci interroga, chiedendo: «E voi dove eravate mentre tutto stava crollando?».