BUON COMPLEANNO RIVER PHOENIX

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I computer non esistevano, Twitter, Facebook o Instagram erano parole senza senso, c’erano solo le videocassette sullo scaffale e un plico di riviste consumate a forza di essere lette. Le informazioni – per quanto oggi possa sembrare strano – arrivavano ancora dalla televisione o dalle edicole, anche con giorni di ritardo. Che River Phoenix se n’era andato, lo scoprimmo così solo due giorni dopo quel 31 ottobre 1993 quando, in mezzo agli ultimi saluti al maestro Fellini – scomparso lo stesso giorno – uscì sui quotidiani la notizia che l’ultimo divo di Hollywood era morto davanti a un locale su Sunset Strip. Per molti fu – cinicamente – solo l’ennesimo caso di giovane divo stroncato dal successo, ma per un’intera generazione, la nostra, quella che negli anni Ottanta aveva iniziato a scoprire il mondo partendo dal cinema, fu uno shock terribile.

Perché? Perché Phoenix non era solo un attore, era qualcuno con cui eravamo cresciuti, un mito da chiamare per nome – e che nome, River – che le ragazze sognavano come fidanzato e i ragazzi come miglior amico. Guardavamo i suoi film cercando di mandare a memoria le sue battute, cercando di trovare in noi la grazia che aveva lui.

La prima volta che lo vedemmo fu in una puntata di Casa Keaton, amico timido della sorella minore di Michael J.Fox. Poi arrivò Explorers, viaggio interstellare a fianco di un Ethan Hawke occhialuto e quindi Mosquito Coast, figlio ribelle di Harrison Ford.

A folgorarci – nemmeno a dirlo – fu però qualcos’altro, Stand By Me, visto e rivisto su una vecchia videocassetta presa a noleggio, con quei quattro amici persi nella loro sincera confusione, simbolo della cosa più bella degli anni della crescita: l’ingenuità. Ma il Chris Chambers di Phoenix non era solo cinema, era qualcosa di più grande dello schermo che cercava (invano) di contenerlo, era un personaggio fragile quanto romantico, nervi tirati e cuore a pezzi, e non potevamo certo sapere che quel film contenesse anche il suo destino. «Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodoci anni. Gesù, ma chi li ha?», diceva alla fine Gordie, ovvero Will Wheaton.

A ventitré anni dalla morte, la domanda – inevitabile – è cosa sarebbe successo se River Phoenix non fosse morto, se quella sera se ne fosse andato dal Viper Room e il giorno dopo fosse arrivato puntuale – e ripulito – all’appuntamento con Terry Gilliam, che lo aspettò per due ore prima di sapere della sua morte. Sarebbe diventato come l’amico Keanu Reeves – che dopo Matrix non ha più azzeccato un film – o come Johnny Depp? Come Leonardo DiCaprio, che rimane uno dei suoi più grandi fan assieme a James Franco, o come il compare Ethan Hawke? Difficile dirlo, forse però, viste le sue ultime scelte – da Belli e dannati di Van Sant a Dark Blood di Sluizer, avrebbe bazzicato più il cinema indipendente che Hollywood.

Qualche anno fa, durante un junket a Los Angeles, siamo andati al Viper Room. Era una sera di fine marzo, il locale era semivuoto, così siamo entrati e usciti, fermandoci per qualche minuto sul marciapiede lì fuori, cercando di capire. Davanti alla concretezza di un luogo per nulla poetico – anzi, piuttosto squallido – abbiamo finalmente capito l’errore colossale che avevamo fatto durante tutti quegli anni, trattando River Phoenix come un’icona, un divo irraggiungibile, un’altra leggenda da appendere al muro con poster e ritagli di giornale. Era molto meglio.