Tra i personaggi più attesi al Tokyo Film Festival, il vincitore del Gran Premio alla Japan Horror Film Competition Kondo Ryota arriva sull’onda dell’investitura a nuova promessa del J-horror ed erede di una lunga tradizione. E lo fa esordendo alla regia con Missing child videotape, film prodotto da Takashi Shimizu – uno dei principali autori del genere e indimenticato regista dei vari Ju-on, Marebito e Homunculus – che torna a scegliere una vecchia videocassetta VHS come strumento in grado di riportare il protagonista al passato e a metterlo a confronto con il trauma mai risolto che è al centro della vicenda.
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IL FATTO
A casa di Keita e Tsukasa, inaspettatamente, un giorno arriva un pacco misterioso. È da parte della madre del primo e contiene una videocassetta nella quale si vede il momento della scomparsa del fratello minore, anni prima. Un ricordo indelebile e un dramma mai chiarito veramente, visto che del ragazzino non si sono mai più avute notizie. Motivo di più per affrontare una volta per tutte l’antico trauma, rivivendo il doloroso passato e tornando sulla montagna dove era avvenuto il fatto e dove il piccolo Hinata aveva fatto perdere le sue tracce… in un edificio che non sembra nemmeno esistere.
L’OPINIONE
Dal seminale Ringu alla serie dei discutibili V/H/S (ormai composta dai sequel V/H/S/2, V/H/S: Viral, V/H/S/94, V/H/S/99, V/H/S/85, V/H/S/Beyond, V/H/S/8 e gli spin-off SiREN e Kids vs. Aliens), l’escamotage della videocassetta maledetta o come strumento di terrore non è certo nuovo, ed è piuttosto naive che la produzione prometta a un pubblico di appassionati “una nuova dimensione” e di “sperimentare il terrore catturato in una cassetta VHS”, ma è pur vero che nell’opera di Kondo Ryota qualcosa di interessante c’è. Non quanto a terrore, diremmo, ma nel tentativo di aggiungere un elemento meno usuale nello sviluppo della vicenda, che pure intreccia diversi sottogeneri più classici.
Forse inevitabile, considerato il DNA del regista, giapponese di nascita e di formazione, cresciuto professionalmente alla ‘corte’ di Takashi Shimizu (Ju-on, The Grudge), del quale è piuttosto azzardato considerarlo effettivamente un erede, almeno per il momento. A tratti confuso e in difficoltà nell’armonizzare le diverse suggestioni offerte dalla storia, infatti, Ryota realizza comunque una discreta prima volta, nella quale si avvertono le eco di una tradizione importante, mai replicata pedissequamente.
Alla base l’omonimo corto del 2023, del quale questo è una evoluzione, nel quale era già presente l’intenzione di puntare su atmosfere e ferite interiori, traumi e senso di colpa, più che su colpi di scena e a effetto. Peccato che lo sviluppo nel lungo richieda un ampliamento della storia, che non sembra sempre in grado di giustificare se stessa. Pur mantenendo il senso di un senso disagio costante, e crescente, che nonostante una conclusione un po’ tronca e prevedibile, rende questo ‘primo passo’ tale da tenere in considerazione il neo regista, in attesa di rivederlo in azione.
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Difficile vedere una scala all’interno di una casa tipica giapponese e non ripensare al Ju-On al quale il regista è comunque legato a vario titolo, ma nella ricerca del fratello perduto c’è molto dei drammi familiari statunitensi, con un tocco di soprannaturale che tanti remake hanno spettacolarizzato a modo loro (tipo Dark Water). Tanto che per restare in tema con l’ambientazione, o per prepararsi al meglio stuzzicando le nostre stesse paure e inquietudini, potrebbe essere utile rivedere Jukai – La foresta dei suicidi.