Alla 75esima Mostra del cinema di Venezia c’è spazio anche per il documentari d’inchiesta con Isis, tomorrow. The lost souls of Mosul (Fuori Concorso). Spinti dalla voglia di raccontare i risvolti più inediti e meno mediatici della guerra allo Stato Islamico, la giornalista Francesca Mannocchi e il fotografo Alessio Romenzi si muovono nei territori martoriati dagli jihadisti e affrontano una delle pagine più nere della cronaca contemporanea. Se il gruppo terroristico più temuto del mondo ha perso il controllo delle tre autoproclamate capitali, Sirte, Raqqa e Mosul, città simbolo in cui al Baghdadi annunciò il califfato nell’estate del 2014, cosa resta in quelle terre? I miliziani sono stati definitivamente vinti? Forse no. Al termine di una guerra spesso chi viene sconfitto lascia dietro di sé i propri arsenali, debitamente nascosti, nell’attesa di tornare a combattere. A Mosul l’ISIS ha lasciato 500.000 bambini, educati alla violenza e al martirio. Le armi del futuro, ideali per compiere l’obiettivo supremo: annientare gli infedeli e instaurare il Califfato su scala globale. Ma le anime di quei piccoli sono ormai perse o potranno avere un’esistenza normale in tempo di pace? Abbiamo incontrato Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi per farci svelare i risvolti più inediti della difficile realtà che hanno portato sul grande schermo.
Come è nata l’idea di realizzare Isis, tomorrow. The lost souls of Mosul?
FM:Come reporter siamo stati in molte zone di guerra e nel 2016 ci siamo trovati a raccontare l’offensiva su Mosul. Abbiamo sentito l’esigenza di raccontare gli esseri umani che vivono questa guerra. Le voci e i volti dei bambini visti spesso nei video dell’Isis ma anche le donne che non sono remissive e sottomesse come spesso ci raccontiamo.
Cosa c’è di diverso a Mosul rispetto alle altre zone di guerra?
FM:L’Isis è sempre stato raccontato come un’enorme monolite nero contro cui valeva tutto. Non c’è stato un dubbio etico, ma ad oggi non si sa quanti siano state le vittime civili del conflitto. La situazione è in uno stallo critico e nessuno sa cosa ne sarà di quei bambini. “Ne ammazzeremo il più possibile, che dobbiamo fare?. Voi non volete i figli dei foreign fighters. Perché dovremmo volerli noi? ” è stata una delle risposte che abbiamo avuto da chi abita in quei luoghi.
È la prima volta che qualcuno porta sul grande schermo le donne e i bambini dell’Isis?
AR: No. Il documentario però racconta le vittime dei miliziani e anche le esistenze dei loro familiari. Le donne, vedove degli jihadisti, non sono succubi come spesso crediamo. Sono la migliore arma del Califfato. Rappresentano il futuro dell’ideologia. Sono le reclutatrici dell’Isis. Un pericolo sottostimato.
Addestrati a diventare kamikaze, educati a uccidere i propri vicini, molti bambini vivono una lacerante lotta interiore, divisi tra i serrati dettami inculcati dall’ideologia e la necessità di confrontarsi con la realtà del dopoguerra. Come è la loro vita?
AR:Vivono segregati nelle loro case. Emarginati e marginalizzati. Così crescono secondo la propaganda estremista. Noi abbiamo cercato di entrare in contatto con loro. Li abbiamo ascolta, per capire le loro ragioni e quali pensieri si affollano dentro di loro.
Ci sono stati dei momenti di difficoltà? Come si torna da un’esperienza simile?
FM: Come madre mi sono trovata nella scomoda situazione di empatizzare con il dolore di quelle donne, figlie e vedove dei miliziani. Ma è stata l’occasione per esplorare tutte le sfumature e le complessità che si portano dentro.
AR: L’impatto è forte. È difficile sentire parlare un ragazzino di morte, violenza e martirio. Per molti bambini l’idea di sacrificare la propria vita rappresenta una prospettiva per il futuro. Le nuove generazioni poi sono molto consapevoli che la storia è ciclica: se ora l’Isis è in difficoltà e le capitali sono perse, conta mantenere viva l’ideologia per domani. I numeri dimostrano che la lotta non è finita: oggi si stima l’esistenza di 30.000 miliziani pronti a combattere.