“SALAFISTES”: IL TERRORISMO IN UN DOCUMENTARIO

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«Grazie a Dio quando abbiamo preso le armi per far applicare la religione, Dio ci ha ricompensati. Molte donne si sono messe il velo, le persone hanno abbandonato la droga, l’alcol. Non ci sono più peccati ora. Grazie a Dio».

Ascoltare queste parole da un jihadista in persona ha un effetto ben diverso che sentirle dire da un giornalista di un qualsiasi telegiornale. Ecco perché qualche tempo fa ne era subito scaturita una polemica. Il documentario Salafistes doveva uscire nella sale francesi lo scorso 27 gennaio ma il ministero della cultura aveva deciso di vietarlo ai minori di 18 anni in ragione «dell’assenza di commento e dell’estrema violenza delle immagini». Il film accusato di «apologia di terrorismo» non arrivò mai al cinema. Infine, il tribunale amministrativo di Parigi ha annullato la censura. In effetti, la violenza delle scene è essa stessa denuncia del terrorismo e il realismo in fondo permette di riflettere e prendere le giuste distanze dalle immagini. Presentato lo scorso gennaio al festival dei programmi audiovisivi di Biarritz, Salafistes del regista francese François Margolin e del giornalista della Mauritania Lemine Ould M. Salem, si pone proprio questa sfida: lasciare lo spettatore solo di fronte alla retorica salafista per comprendere meglio la realtà che ci circonda e infine giudicare, autonomamente.

Senza voce fuori campo, il film lascia la parola ai teorici del terrorismo islamico che gli autori hanno incontrato in Mauritania, in Mali, in Tunisia e ancora in Irak dal 2012. Salafistes mostra l’applicazione della charia nel quotidiano: le donne rimproverate dalla polizia islamica nel nord del Mali perché il loro velo non è indossato perfettamente, l’amputazione della mano di un ladro, l’esecuzione pubblica di un touareg berbero. Quest’ultima scena ha poi ispirato Timbuktu, vincitore di sette premi Césars. Inoltre, ciò che ha suscitato la maggior parte delle critiche: dibattiti dei responsabili politici di Al-Qaeda si alternano a video di propaganda dell’Isis e a immagini amatoriali dell’11 settembre 2001 e dell’attentato a Charlie Hebdo.

Gli intellettuali, dunque, si sono divisi sul valore del film, irresponsabile e pericoloso per alcuni, necessario per altri, tra cui lo scrittore e regista Claude Lanzmann che su Le Monde l’ha definito «un vero capolavoro illuminante come mai nessun libro, nessuno specialista dell’Islam». Rimane però da vedere se il documentario raggiungerà mai i cinema. Gli attentati di Charlie Hebdo erano stati collegati da alcuni al romanzo profetico di Michel Houellebecq, Sottomissione. Stessa sorte per gli attacchi del 13 novembre che sono avvenuti alla vigilia dell’arrivo in sala di Made in France, film su una moschea in cui jihadisti francesi preparano un attentato. Dunque, valgono ancora le parole di Claude Lanzmann che a gennaio chiedeva all’allora ministro della cultura, Fleur Pellerin, «non private i giovani dal vedere Salafistes».