È stato Gianni Amelio il protagonista dell’Evento speciale alla 61ma Mostra di Pesaro, diretta da Pedro Armocida. Quest’ultimo ha anche curato, assieme ad Anton Giulio Mancino, il nuovo volume Marsilio Gianni Amelio – Il campo del cinema, dedicato al pluripremiato regista e sceneggiatore (nato ottant’anni fa a Magisano, Calabria) e ricchissimo di contributi, dai saggi su singole opere e aspetti della poetica (firmati da autori come Alberto Anile, Roberto Chiesi, Paola Casella, Steve Della Casa, Alberto Crespi, Emanuele Di Nicola, Emanuela Martini e altri ancora) alle interviste ai collaboratori (per esempio quella di Ilaria Ravarino al compositore Franco Piersanti). Senza dimenticare le “chicche” come la prefazione dei Fratelli D’Innocenzo e la lista motivata dei 10 lungometraggi degli anni Duemila preferiti dal filmmaker. Che, non per nulla, è anche (appassionato) critico cinematografico.
Il titolo della monografia richiama la più recente fatica di Amelio, Campo di battaglia (già in concorso all’81ma Mostra del Cinema di Venezia), non presente tra i suoi lavori riproposti durante il festival pesarese (e scelti da lui stesso): Colpire al cuore (1982), Il ladro di bambini (1992), Così ridevano (1998), Le chiavi di casa (2004), Il primo uomo (2011), La tenerezza (2017), Il signore delle formiche (2022) e Lamerica (1994), proiettato nella versione restaurata in Piazza del Popolo per il momento culminante dell’omaggio. Nondimeno, in una lunga conversazione con la stampa, dove ha spaziato dalla figura del mentore (e del padre) nelle sue storie al rapporto con la serialità televisiva e l’amore per film divisivi come Megalopolis di Francis Ford Coppola, Amelio si è soffermato anche sul dolente affresco della Prima guerra mondiale (e dell’epidemia di Spagnola) interpretato da Alessandro Borghi, Gabriel Montesi e Federica Rosellini.
Rispondendo a Ciak, infatti, il regista ha approfondito alcuni risvolti di Campo di battaglia, partendo da affinità e differenze con un altro lungometraggio ambientato durante la Grande Guerra, il capolavoro di Stanley Kubrick Orizzonti di gloria: che, confessa, non gli è venuto in mente realizzando il suo film, perché «ce l’ho dentro fin dal 1957!», cioè da quando uscì in sala per la prima volta: «Succede, con le cose che ti sono troppo familiari, di non pensarci poi quando stai girando una cosa».
«Fino a Orizzonti di gloria», ricorda Amelio immergendosi e immergendoci nelle memorie cinefile, «Kubrick non era conosciuto, nemmeno in America, nel senso che aveva fatto dei piccoli film indipendenti, belli tra l’altro, che non avevano avuto una via commerciale importante. Orizzonti di gloria è stato fatto da lui perché l’ha chiamato l’attore protagonista, Kirk Dogulas, persona molto intelligente, che ha visto quel ragazzo e ha capito che era un genio. Il film in Italia e in Europa è esploso. Fu proibito in Francia perché i francesi non ci facevano una bella figura, in Italia fu un enorme successo di critica e un modesto ma buon successo di pubblico».
Il futuro regista de Il ladro di bambini all’epoca aveva 12 anni: «Sono andato a vederlo», naturalmente senza coglierne «le sfumature stilistiche, non capivo allora che c’era un piano-sequenza dentro la trincea a precedere, eccetera. Però mi ha emozionato una cosa, una cosa sola: la scena finale. È stata un colpo, perché in realtà Orizzonti di gloria, e in questo ci può essere un parallelo con Campo di battaglia, è un film apparentemente “distaccato”, il contrario del melodramma, può essere anche accusato di una certa freddezza». Ma le emozioni (e il senso, non retorico, di fratellanza tra esseri umani contro ogni bellicismo) esplodono nella conclusione del film di Kubrick, in cui una prigioniera tedesca (Christiane Harlan) canta per i soldati francesi che, nell’ascoltarla, si commuovono. Una sequenza, rimarca Amelio, «dove veramente chi non piange non ha cuore, e io ho pianto».
Malgrado ciò, prosegue il regista, negli USA Orizzonti di gloria «è passato non con indifferenza, ma con gente che non l’ha capito. In questi ultimi tempi sulla rivista Cineforum parlo di come alcuni film molto belli non siano stati capiti dalla critica americana dell’epoca, e tra questi c’è proprio Orizzonti di gloria, il quale ha avuto una battuta, pronunciata non ricordo da chi, ma molto cattiva, maligna, voleva distruggere secondo me il cuore del film: “Stanley Kubrick si trova molto più a suo agio nei palazzi del potere che nelle trincee”, che per un film così altamente umanistico è un’offesa, una pugnalata alle spalle».
Tornando perciò al confronto con Campo di battaglia, Amelio aggiunge: «Io, invece, non sono entrato né nelle trincee né nei palazzi del potere, ho visto solo lo sfondo di un palazzo dove un capitano parla con un generale in un carrello a precedere. Quella cosa mi ha ricordato che potevo anche entrare dentro “alla Kubrick”, ma non l’ho voluto fare. E non ho nemmeno voluto fare il piano-sequenza della trincea perché quella è l’unica scena del film di Kubrick che io non amo».
Il regista motiva così il suo giudizio in merito a quella celebre inquadratura: «Cosa può accadere a un regista? Di voler essere bravo, troppo bravo. E di voler dimostrare che ha un talento, diciamo, con una certa dose di esibizionismo, che io riconosco in tanti registi attuali. Si vuole fare il cosiddetto “pezzo di bravura”. Che è quella carrellata a precedere di Orizzonti di gloria, fatta non con la steadycam, non esisteva, ma con una meravigliosa macchina a mano attaccata al corpo dell’operatore, e almeno tre o quattro macchinisti che reggevano quest’operatore: perché Kubrick non voleva fare stacchi, voleva fare “il bravo della situazione”. A quel punto mi sono detto: questo forse è indifferente alla sorte dei soldati, forse è uno che scansa la visione della morte e di tutto ciò che la guerra comporta. Si esibisce in un momento in cui non dovrebbe. Poi, il finale mi ha riconciliato completamente con tutto il film. Ma io una carrellata in una trincea non la farei nemmeno se ci fosse il plotone di esecuzione puntato sul soldato».
Proprio la fucilazione del disertore è uno dei momenti in Campo di battaglia che richiamano maggiormente il confronto con Orizzonti di gloria, dove poco prima della fine assistiamo a una speculare esecuzione: una differenza significativa è che, nel film di Amelio, il nostro punto di vista è dalle spalle del condannato anziché del plotone.
«A proposito di quella scena», racconta Amelio, «mi è accaduta una cosa molto bella mentre facevo il giro delle città italiane per presentare il film: una signora alla fine, durante il dibattito, mi ha detto: “Mi scusi, Signor regista, ma chi decide dove si mette la telecamera?”. Ovviamente per quasi tutto il pubblico non esiste “cinepresa” o “macchina da presa”, ormai tutti dicono “telecamera”. Io dico: “Lo decide il regista”. E lei: “Ah! Quindi è lei che ha deciso di mettere la telecamera dietro le spalle del soldato! E sa, Signor regista, che effetto mi ha fatto? Che il colpo di fucile è arrivato a me!”. Siano benedetti questi momenti, in cui davvero si ha la soddisfazione di aver fatto un film in un certo modo».
Il cineasta specifica che avrebbe potuto realizzare quella sequenza in molti modi diversi, basandosi sui suggerimenti dello storyboard, ma di aver preferito «una sola inquadratura in tempo reale, con tutto il plotone che arriva, si dispone, spara, se ne va, e soprattutto alzando molto il sonoro». Un aspetto molto importante, quest’ultimo, evidenziato anche nel volume Marsilio e rimarcato dallo stesso Amelio: «Campo di battaglia è un film forte nelle immagini, però il sonoro ha una prevalenza forte su di esse, e nel sonoro c’è anche un altro tipo di senso», legato ai vari dialetti parlati dai soldati. Al «peso dei rumori, perché la musica è quasi inesistente» si aggiunge quindi «il peso della parola, che si deve capire essere estranea all’altro, quindi anche a noi spettatori, che abbiamo bisogno di leggerla con i sottotitoli».