#Pesaro61, Giulia Grandinetti presenta alla Mostra il suo corto Majonezë

La regista ha ottenuto alla Mostra pesarese il Premio Marche Nuovo Cinema, ed è arrivata finalista ai David di Donatello 2025. L'abbiamo intervistata.

0

Credo che il cinema possa essere a tutti gli effetti un atto politico, antropologico, e soprattutto un rivoluzionario“. Lo dice a Ciak Giulia Grandinetti, che alla 61ma Mostra di Pesaro ha presentato il corto da lei scritto, diretto e co-prodotto (e già portato a Cortinametraggio e al Figari Short Fest) Majonezë. Il film, assieme a La confessione di Nicola Sorcinelli, ha ottenuto il Premio Marche Nuovo Cinema al festival pesarese, dopo essere arrivato finalista ai David di Donatello.

LEGGI ANCHE: Giulia Grandinetti tra i vincitori di Cortinametraggio 2025, i premi e le dichiarazioni

Ma, al netto delle soddisfazioni ricevute, per la regista (tra i suoi precedenti lavori, il lungometraggio Alice and the Land that Wonders, 2020, e i corti Guinea Pig e Tria – del sentimento del tradire, primi due atti di una trilogia conclusa proprio con Majonezë) “oggi dovremmo capire meglio perché facciamo cinema: vado a molti festival e sto ricevendo tanti riconoscimenti, però la cosa più importante è cercare di stabilire una connessione col pubblico, e vedere che i nostri film sono capaci di toccare dei temi e, pur in piccolo, fare la differenza.

La speranza, prosegue, è che “il cinema non diventi una sorta di circo dell’egocentrismo, ma che gli autori di oggi recuperino una consapevolezza del loro, e nostro, potere: il potere di sensibilizzare e sensibilizzarci su questioni imprescindibili, visto quanto sta accadendo nel mondo. Attualmente, Grandinetti è all’opera su un nuovo lungometraggio, intitolato Jaune et Bleu.

Una cosa che colpisce subito di Majonezë è la sua ambientazione in un’Albania rurale, decisamente insolita per il cinema italiano. Come è nato perciò questo film e che legame hai col luogo in cui si svolge?
Sono nata a Macerata e cresciuta a Potenza Picena, nelle Marche, un piccolo centro di campagna collinare, quindi si possono trovare similitudini con altri contesti rurali come quello del film. Non ho origini albanesi, ma ho forti connessioni col mondo greco, perché tutte le estati mi trasferisco a Kefalonia con i miei familiari, dove abbiamo una casa. Ho sempre sentito perciò una fascinazione per l’area balcanica, e sei anni fa, nel gennaio 2019, mi sono recata lì per un viaggio col mio ex compagno, alla ricerca di luoghi da fotografare. Lì è nata l’idea di realizzare un corto, ambientandolo nel paese di Ersekë, in Albania: avevo preso contatti con le persone del posto, continuando a sentirle negli anni, e tempo dopo ho desiderato tornarci per sviluppare questa storia.

Il corto ci mostra un gesto di rivolta della protagonista (interpretata da Caterina Bagnulo) contro il sistema patriarcale in cui vive, opponendosi sia al padre albanese che la vorrebbe dare in sposa a uno della stessa etnia, sia al ragazzo serbo innamoratosi di lei…
Sì, molte persone mi dicono che questo è un film unicamente sul femminile, ma io ho cercato di costruire un discorso più sfaccettato, perché il patriarcato non riguarda solamente uno scontro tra maschile e femminile. Il patriarcato, per come lo intendo io, è un sistema di restrizioni e abitudini che abbiamo normalizzato nella nostra cultura e società, e riguarda sia gli uomini sia le donne. Anzi, le donne forse oggi stanno riuscendo a trovare una forza di emancipazione in grado di farsi sentire, dopo tanti anni di lotte e di conquiste. Anche gli uomini dovrebbero cercare di recuperare uno spazio di riflessione su come combattere il patriarcato dalla loro prospettiva. Ho concepito il film dedicandolo ad entrambi i generi, sapendo che queste criticità riguardano entrambi.

Come si lega questo tema alla scelta del bianco e nero, significativamente “rotto” dal colore dorato, per il tuo film?
Si lega al fatto che la protagonista è costretta e compressa tra forze opposte. C’è il contrasto fra maschile e femminile, il contrasto fra i due uomini che vogliono esercitare una proprietà su di lei, il contrasto fra quello che vive nel suo passato, nel suo presente e nel suo futuro, il contrasto fra quello che accade dentro e fuori le mura familiari. La sua liberazione da questa contraddizione si manifesta attraverso l’ingresso del colore dorato. L’oro non è propriamente un colore ma un materiale, che al suo interno replica il rapporto tra luce e ombra.

E come mai hai voluto dare risalto, sin dal titolo, all’elemento della maionese?
Ragionavo su qualcosa di universale, come un “gadget” da consegnare allo spettatore, e che restasse nella sua psiche risvegliandosi nel momento in cui, uscito dal cinema, torna alla vita normale. Un elemento potenzialmente universale, per me che viaggio tanto, sono le patatine fritte: rappresentano uno sfizio, magari non molto “sano”, ma capace ogni volta di farmi sentire a casa, perché le trovo un po’ ovunque, e mi ricordano anche l’essere bambini. Ma ho deciso poi di consegnare il significato del corto alla maionese, perché, se da un lato la protagonista riesce ad avere le patatine grazie ai soldi, con uno scambio economico, la salsa dovrebbe essere un suo diritto, no? O almeno fino a poco tempo fa spesso era inclusa nell’ordine di una porzione di patatine. Lei quindi “pretende” come un diritto questa piccola cosa. E mi piaceva l’idea di consegnare inconsciamente allo spettatore un elemento, estremamente comune e quotidiano, in grado di far vivere il film anche dopo la proiezione. E sta succedendo: molte persone mi mandano a volte delle foto di barattoli e tubi di maionese quando sono al supermercato o al ristorante, rievocando l’esperienza cinematografica.

Per questo corto hai riferimenti e ispirazioni cinematografiche particolari?
Tendenzialmente non mi ispiro mai a nessun film in particolare, è ovvio poi che a livello inconscio tutto quello che facciamo è in qualche modo sempre ispirato da ciò che abbiamo già visto e incontrato. L’unica reference che mi sento di citare come consapevole, ma esplorata solo in un primo momento del processo creativo, è L’odio (La Haine) di Mathieu Kassovitz, per la costruzione dell’estetica dei due ragazzi serbi. È uno spunto subentrato quando feci il viaggio col mio ex compagno, fu lui a propormi questo film che già conoscevo, dicendomi che sentiva un collegamento con quelle atmosfere. Ma poi l’estetica non funziona se si resta in superficie e dunque mi piace ascoltare il film e creare quanto più possibile un mondo nuovo, il più unico possibile. Da alcuni spettatori mi vengono a volte riportate anche delle similitudini con il mondo di Kill Bill di Tarantino, ma sono assolutamente inconsce. Devo dire invece che mi ispiro molto alla pittura: se dovessi citare una reale fonte d’ispirazione, direi l’iconografia greca ortodossa, per esempio nell’uso dell’elemento dorato. Ed è proprio da quel tipo di iconografia (comune sia in Albania, che nella mia amata Grecia) che sono partita per concepire il tipo di materiale dorato presente nel film.