“120 battiti al minuto”: Act Up, l’amore gay, il sesso e la lotta ai pregiudizi sui malati di Aids

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120 battements par minute Francia, 2017 Regia Robin Campillo Interpreti Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois, Adèle Haenel Distribuzione Teodora Film Durata 2h e 20’ 

Al cinema dal 5 ottobre 2017

IL FATTO — Parigi, anni Novanta. La storia vera di Act Up, il gruppo di attivisti per i diritti dei sieropositivi impegnato in spettacolari azioni dimostrative contro il governo e le multinazionali, per combattere l’indifferenza dello Stato nei confronti dei malati di Aids, chiedere campagne di prevenzione più efficaci e più trasparenza da parte delle case farmaceutiche. Il giovane Nathan entra nel gruppo e si innamora di Sean, uno degli attivisti più radicali, sieropositivo: lotteranno insieme per Act Up e contro il progredire della malattia di Sean.

La vicenda di 120 battiti al minuto, già premiato col Grand Prix allo scorso Festival di Cannes e scelto per rappresentare la Francia agli Oscar 2018, nasce dalla esperienza diretta del regista. Robin Campillo ha fatto parte di Act Up Parigi dal 1992: quasi tutto quello che vediamo, a partire dalle emozionanti riunioni del gruppo in cui tutti possono condividere la loro opinione, in un esercizio di democrazia che oggi quasi sorprende, è accaduto veramente. «Ho pensato a questo film per venticinque anni: quel periodo con Act Up mi ha fornito gli occhiali attraverso i quali guardo la realtà anche oggi», dice Campillo. «Da ventenne ho visto i primi articoli sull’epidemia di Aids e sono rimasto traumatizzato. Ho cercato di proteggermi come potevo nei rapporti amorosi e ho vissuto gli anni ‘80 nel silenzio. Dieci anni dopo i giornali annunciavano che la gente moriva: drogati e prostitute erano i più a rischio, ma venivano stigmatizzati senza che fosse fatta alcuna campagna di prevenzione indirizzata proprio a loro».

Il film è un memoir autobiografico che racconta però un’intera generazione: «In una scena Nathan racconta a Sean del suo primo fidanzato: è esattamente la mia storia. Il mio primo boyfriend, incontrato nel 1981, non mi aveva detto che era malato. Qualche anno dopo ho scoperto che era all’ospedale, ma suo padre mi ha impedito di andarlo a trovare. Grazie a quella collera sono entrato in Act Up: come si vede nel film, ho conosciuto un gruppo gioioso, anche se quasi tutti erano già malati». Per questo 120 battiti al minuto, che si rifà al ritmo della pop music ballata dai ragazzi degli anni ‘90, non è un film sull’Aids ma su Act Up, la voglia di vivere e i giovani, com’erano tanti sieropositivi di allora. «Act Up voleva sensibilizzare chi preferiva non sentir parlare di Aids, anche all’interno della comunità omosessuale. Attaccavamo manifesti soprattutto nei quartieri gay: non volevamo essere vittime dell’epidemia, ma attori nel cambiare la percezione della malattia».

I mezzi erano le eclatanti azioni dimostrative raccontate dal film, il lancio di sangue finto, la distribuzione di preservativi nelle scuole. Ma anche l’amicizia, la festa del Pride, le liti, il contatto quotidiano con la morte: «Anche la scena in cui un ragazzo veste l’amico appena morto di Aids mi è accaduta veramente», ricorda il regista. Il film è un fiume che mescola con eccezionale vitalità emozioni, paura, terapie, riflessioni sul potere politico e su quello delle case farmaceutiche, amore, sesso. Una storia corale che richiama le esperienze di Campillo come sceneggiatore e montatore di Laurent Cantet: «Ho girato le sequenze di dibattito con tre camere, proprio come abbiamo fatto in La classe di Cantet. Mi piace l’idea che la fiction esca da un caos primitivo, un flusso dove ci si può focalizzare su un personaggio o un altro». Di Aids c’è ancora bisogno di parlare: «Molti spettatori sotto i trent’anni non avevano idea che all’epoca l’epidemia non fosse solo una questione di salute privata, ma diventasse lotta politica. Il confronto era vero, diretto. Noi in quella battaglia ci identificavamo pienamente: era una questione di vita o di morte»

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