Carte che volano, un ragazzo dalla faccia antica in abiti militari troppo austeri per la sua impreparazione, il rischio di finire ammazzato dai suoi stessi compagni e alla fine della corsa, quella spiaggia diluita nella nebbia, infinita e ferita dalle file nere di soldati in fuga dall’accerchiamento dei nazisti. Quasi un film muto (e infatti a quelli si è ispirato l’autore in fase di preparazione), Dunkirk di Christopher Nolan, risparmia le parole, basta una sola drammatica frase: “Potevamo scegliere fra due cose: la resa o l’annientamento”.
Dunkirk, è certamente il film dell’anno, sarà (o dovrà essere) il film degli Oscar ed è mirabilmente scevro dai ghirigori di senso e visivi a cui Nolan ci ha abituati in precedenza, anzi aderente più che mai al reale, che il regista di Il cavaliere nero e Interstellar cerca di “rivelare” allo spettatore rimanendo saldo nell’epicentro del dramma. La macchina da presa Imax sta attaccata alla moltitudine della facce (forse la scelta più riuscita dell’opera, da Fionn Whitehead, straordinario, ai bravissimi Cillian Murphy, Harry Styles, Barry Keoghan) corre appresso alle schiene, rimbalza di lato, si infila nella distruzione. E registra ogni suono, ogni fremito, ogni terrore.
L’odore e il suono della paura, dell’ansia, della sfinita attesa ci arrivano addosso, azzannandoci dal nulla, senza che nessuno ne descriva o riassuma l’antefatto. L’importante, perfino per l’autore, è uscire vivi ad ogni costo da quello stretto molo su cui si ammassarono all’epoca migliaia di soldati spauriti, troppo giovani. Non c’è un solo errore nella scelta dei volti, sconosciuti ai più, privi background: erano lì in quel momento della Storia e questo basta. Con una tensione che non molla mai l’anima Nolan sta con loro e ci racconta, in discrasia di tempo e luogo, una resa che assomiglia a una vittoria umanitaria.
Il regista si libra in cielo tra battaglie aeree disperate e primissimi piani del pilota dello Spitfire Tom Hardy e solca il mare a bordo del Moonstone, una delle tante imbarcazioni civili che si precipitarono a salvare i soldati del Regno, guidate da gente comune ma salda come Mark Rylance, cui basta un cenno per comunicare certezze e senso di appartenenza. Quando nella nebbia appaiono le luci delle imbarcazioni dei privati (“il miracolo delle barchette” venne definito) anche il comandante Kenneth Branagh mette a riposo la sua nobile retorica e scioglie in piccole lacrime la faccia shakespeariana.
Ci sarebbero infiniti motivi per amare questo film, ma almeno due vanno citati. È un film di guerra che non si perde in sangue e battaglie. Alla fine non avremo mai la sensazione di aver visto una morte cruenta, tanto che il famoso incipit di Salvate il soldato Ryan, con le pallottole che trapassano crude mare e corpi, ci appare vecchio, antico, manierista. Il film di Spielberg cominciava e finiva lì, in quel bagno di sangue. Quello di Nolan procede attraverso il tumulto dei corpi, degli sguardi, della paura, senza un primo e un secondo tempo, ma giocato sulla compresenza illusoria di cielo, terra e mare. E poi ci sono le intuizioni. Una menzione speciale va a Tom Hardy e a come il regista ha immaginato il suo ruolo. Una star che recita per tutto il tempo con il volto coperto, blindato nel cockpit mentre la benzina finisce e che pure riesce a comunicare con noi, e con l’amico che vola lontano, semplicemente con un gesto delle dita, con l’apprensione, il dolore, la stanchezza e infine la determinazione negli occhi. Il pilota inglese capisce quale sarà il suo destino e noi lo intuiamo assieme a lui senza mai staccarci da quell’unico pendolo, il suo sguardo.
Il lavoro di regia è monumentale, anche e soprattutto nei dettagli. La robotica degli effetti speciali è assente, tutto lo spazio è lasciato alla battaglia umana per resistere, per non arrendersi e allo stesso tempo accettare e cercare la via di fuga. Anche oggi, in un mondo in cui i presidenti parlano di “Fire and fury”, arrendersi può essere la vera vittoria.