Sette giorni dopo l’attentato di Dallas, Jacqueline Kennedy racconta a un giornalista quei tragici giorni, dalla straziante morte del Presidente ai problemi politici delle esequie, dalla malinconia per l’abbandono della Casa Bianca alle paure sul suo futuro.
«La gente ha bisogno che la Storia gli dia la forza»: il grande Pablo Larrain (Tony Manero, No- I giorni dell’Arcobaleno, Il club), in escursione nel grande cinema americano, dipinge un ritratto di un personaggio-mito del XX secolo e contemporaneamente lancia una riflessione storica sulla mutazione dei modi che ha il potere di autorappresentarsi. Con la sua attenzione agli arredamenti, agli oggetti, allo stile dei vestiti, la first lady inaugurò non solo un nuovo modo di interpretare il suo ruolo (oggi lo definiremmo più glamour), ma facendo della forma, dello spettacolo ad uso “esterno”, un elemento rappresentativo del fare politica. «Anche tra decenni si ricorderanno della sua maestà, della sua dignità», le dicono e lei, apparentemente dimessa e composta ma in realtà capace di sfoderare gli artigli o agire di astuzia si muove sempre con questo obbiettivo. Larrain in effetti, seppure apparentemente intimidito dal giostrare in zone non sue, è abbastanza lucido da costruire un biopic con un attento lavoro sulla forma della narrazione, tra carrellate lente su una Jacqueline sempre nel perfetto centro dell’inquadratura, punto di equilibrio di ogni situazione, per poi evidenziare nel finale anche una sorta di messaggio significativo: «Vorrei che si ricordasse che a un certo punto della Storia c’è stato un fugace barlume di gloria chiamato Camelot» (dai versi di una canzone di un popolare musical dei tempi amatissimo da John e Jackie). Ovvero un momento in cui le cose si sarebbero potute cambiare. Il film dura un’ora e mezzo, e per tutto il tempo una impeccabile Natalie Portman è sempre in scena, scricciolo dalla magnifica consapevolezza dei propri mezzi, capace di trasmettere emozioni con quasi impercettibili alterazioni delle espressioni.