LA DISPERAZIONE DELLA FANTASIA: TERRY GILLIAM COMPIE 40 ANNI DI REGIA

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Terry Gillyam
Terry Gillyam

Quarant’anni fa, esattamente il 14 marzo 1975, esordiva (in coabitazione con Terry Jones) quello che sarebbe diventato uno dei più grandi registi visivi di fine secolo. E anche il più disperato, in un certo senso. Terrry Gilliam, americano radical che ci sapeva fare con l’animazione e meno con l’inglese correttamente pronunciato, con i britannici sulfurei e inevitabilmente snob (from Oxford e Cambridge) Chapman, Palin, Cleese, Idle e Jones aveva fondato il gruppo comico televisivo dei Monty Python (debutto nel 1969) e dopo anni di successi enormi in Britannia, molto meno negli Usa per cui era stato cucito un lungometraggio nel 1971 dai loro sketches (E… ora qualcosa di completamente diverso, regia di Ian McNaughton), sentivano – come dire? – montare l’insoddisfazione creativa e pensarono a una storia concepita appositamente per il grande schermo.

Monty Python e il Sacro Graal
Monty Python e il Sacro Graal

Sui seggiolini da regista si sedettero gli unici interessati, i due Terry, Gilliam e Jones, il primo alle animazioni, alla cura tecnica, ai problemi organizzativi, il secondo alla direzione degli attori. Il film in Italia, dove uscì in una edizione clamorosamente manipolata/massacrata dal doppiaggio, si intitolerà Monty Python e il Sacro Graal e narra (si fa per dire) di Re Artù e i suoi Cavalieri alla ricerca del mistico calice (il medioevo era ed è la passione di Gilliam, come si vedrà anche nei successivi Jabberwocky, I banditi del tempo, La leggenda del re Pescatore). In pratica un pretesto per infilarci, a budget risicato, situazioni non-sense, salti di trama spazio temporali, gag e divertimenti vari. Diciamolo, non fu e non è un capolavoro, piuttosto un esperimento, anche se qualche momento (ad esempio lo scontro con il Cavaliere nero) ancora oggi risulta esilarante e riuscito.Ma non importa. Quel che più conta è che da quel punto il senso della vita di Terry Gilliam prende sostanza ed espressione. Da fumettista, animatore, comico, factotum dell’etertainment, evolve verso la regia, verso la realizzazione delle sue fantasie.

Brazil
Brazil

Mescolando audacia di immaginazione, gusto per il bizzarro e il trucco (non solo quello speciale), passione per il lato nero delle favole e voglia di disorientare più che compiacere il pubblico («amo l’idea di realizzare film per il grande pubblico che dicono agli spettatori: siete persone intelligenti. Non è che voglia traumatizzarli, vorrei solo che uscissero riflettendo un po »), Gilliam intraprende così una carriera con l’andamento della montagna russa, alternando meraviglie ad aborti (a volte non per colpa sua), capolavori a progetti falliti o fallimentari. Tra i primi I banditi del tempo, The Crimson Permanent Assurance (1983: episodio folgorante di Il senso della vita), Brazil (1985), La leggenda del re Pescatore – 1991: Leone d’argento a Venezia e

I fratelli Grimm e l'incantevole strega
I fratelli Grimm e l’incantevole strega

Oscar all’attrice Mercedes Ruehl – L’esercito delle 12 scimmie (1996), Paura e delirio a Las Vegas (1998). Tra i secondi Le avventure del Barone di Munchausen (1989), I fratelli Grimm e l’incantevole strega (2004), il mai finito Don Chisciotte (di cui possiamo vedere raccontate le sfighe in un documentario). Tra i discussi (critica divisa) ci mettiamo infine Tideland (2005: per me ottimo) e Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo (2009), con l’ultimo The Zero Theorem (2013) ancora fermo in Italia all’ingresso in sala.
Tutti però accomunati da una peculiarità, uno stile unico per cui è stato persino inventato l’aggettivo “gillianesque” (Ah, la Francia!). Cosa significa? Come scrive Fabrizio Liberti nella sua pregevole monografia per Il Castoro: «sta a definire un cinema che è commedia ma non solo, comico ma non abbastanza, fantastico ma non del tutto, un cinema dove l’epica si mescola all’ironia, dando vita a un mélange del tutto particolare ».

The Zero Theorem
The Zero Theorem

Gilliam non è un intrattenitore ameno. Anzi, come tanti che vengono dal comico, svela spesso la sua angoscia profonda, inconsolabile, nei confronti dell’assurda tragicità dell’esistenza. La propria ideologia estetica (tra l’altro, innumerevoli i riferimenti pittorici dei suoi film, da Bruegel a Bosch, a Piranesi e tanti altri), punta a lasciare interrogativi più che dare risposte («mi piacciono le chiusure ambigue »), predilige il lato oscuro delle favole («tutte le fiabe migliori sono tetre, pericolose, spaventose ») e il lieto fine per lui spesso non rassicura, come dimostrano le sue creature (da Le avventure del Barone di Munchausen alle 12 scimmie, da Tideland e Parnassus sino all’inedito The Zero Theorem).
Ecco perché questo irriducibile hippie, fedele al matrimonio e alla Toscana in cui vive, è un Maestro pressoché unico nel Pantheon del cinema. E se ha generato filiazioni artistiche, queste vanno ricercate soprattutto negli eccentrici, magari a Spike Jonze o Michel Gondry (o Chris Nolan ma lo citiamo solo per l’ardimento creativo), in quelli che cioé rischiano reputazione e crash a ogni giro di manovella.

Massimo Lastrucci