Sembra difficile potersi fidare delle storiche superpotenze mondiali, troppo interessate al Vibranio del Paese, ma dopo l’incipit spy il sequel di Black Panther: Wakanda Forever sterza decisamente su un binario molto più adatto al più classico dei cinecomic Marvel. Come ampiamente anticipato, e visto nei trailer online, molta dell’azione si svolge sott’acqua, dove i figli di Talokan cercano disperatamente di proteggere la propria indipendenza. Anche a costo di una guerra, nella quale scopriamo le luci e le ombre di un nuovo eroe e sua cugina, l’altero Namor interpretato da Tenoch Huerta Mejía (Narcos: Messico) e la Namora di Mabel Cadena.
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Entrambi messicani, e non per caso, visto che i Marvel Studios hanno optato per un deciso cambio di etnia del personaggio originale, diventato una sorta di campione di una civiltà mesoamericana sviluppatasi sul fondo degli Oceani dopo che la DC Comics era riuscita ad mettere per prima il proprio Aquaman sul trono di Atlantide.
Un anti-eroe che offre molti spunti e un antagonista divisivo a questo nuovo capitolo della Fase 4 del Marvel Cinematic Universe. Qualcosa che il diretto interessato ha vissuto con una certa conflittualità, ma che ha elaborato, a modo suo:
“È difficile avere un personaggio come questo, perché sei l’antagonista e devi distruggere qualcosa non solo nella storia, ma anche nelle persone. Quelle che si erano identificate con il popolo del Wakanda, e nella relativa narrativa, come avevo fatto anche io. Che ora devo interpretare il cattivo che distrugge, o cerca di distruggere, quell’eredità.
Eppure Ryan e gli sceneggiatori hanno trovato un modo per renderlo umano, per spiegare il motivo per cui questo succede. Non significa che vada bene, che sia giusto o meno, ma c’è una ragione per la quale le persone scelgono diverse reazioni al dolore o di fronte a una minaccia nella vita. Lo trovo bellissimo, in quanto molto umano. E i due personaggi che si fronteggiano finiscono per prendere decisioni diverse a causa di dolore o minacce, ma allo stesso tempo condividono una stessa ferita, una stessa rappresentazione delle loro culture. Un equilibrio che in un film si supereroi non si verifica spesso. È fantastico”.
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“Non volevamo dare al pubblico qualcosa di simile ad altre cose precedenti” aveva dichiarato Ryan Coogler a Inverse, confermando di aver basato la creazione di Talokan (simile nel nome a Tlalocan, il paradiso degli aztechi governato dal Dio Tlaloc della pioggia e della fertilità riservato ai morti per annegamento, tempeste e similia) sulle culture Maya e Azteca piuttosto che sulla Atlantide più classica.
“Penso sia il momento perfetto per parlarne, – aggiunge Huerta, riflettendo sul background del suo personaggio. – In America Latina, e in particolare in Messico, tendiamo a rinnegare le nostre radici indigene, nonostante quasi tutti abbiano radici indigene o africane. La nostra cultura abbraccia e onora entrambe, sono davvero importanti, e spero che questo aiuti le persone ad accettare chi sono, chi siamo. Ci hanno insegnato a vergognarci di quello che siamo, ma è ora di smettere e dire, sì, questo è quello che sono e non c’è mai stato niente di sbagliato in me. L’errore era negli occhi di chi ci guardava, di chi ci giudicava. Noi stessi, la maggior parte delle volte. E’ ora di cambiare, e riconciliarci con chi siamo e i nostri antenati, e abbracciarli. E sta succedendo in un film come questo.
Nel quale sia lui sia la sua compagna d’avventura sono stati particolarmente impegnati sul piano fisico, soprattutto nelle scene acquatiche. “E’ stato complicato – ammette il Namor cinematografico, – perché non sapevo nuotare prima di questo film. Ma ora posso trattenere il respiro per cinque minuti“. Niente a che vedere con gli otto di Mabel Cadena, una vera recordwoman.
“Per creare questo nuovo mondo avevamo bisogno di molto allenamento, fisico e mentale – racconta lei stessa – Ho dovuto anche imparare la lingua Maya, per la prima volta in un film come questo, ma sono orgogliosa di questa sfida. Questo film ha molte diversità, molti colori, linguaggi, e sono molto orgogliosa di far parte di qualcosa del genere, perché non è solo un film di supereroi. Il mio coach mi diceva di volere che la sua gente fosse rappresentata con dignità, che è stata la cosa più difficile dell’imparare la lingua Maya, come donna messicana e latinoamericana”.