A volte nemmeno i supereroi Marvel possono nulla contro la realtà: e la storia produttiva di Wakanda Forever, sequel di Black Panther (2018), sempre diretto da Ryan Coogler e nelle sale dal 9 novembre per Disney, ha dovuto fare i conti fin da subito con quest’assunto più ineluttabile di Thanos. La morte, il 28 agosto 2020, di Chadwick Boseman, carismatico protagonista del prototipo (primo cinecomic a correre all’Oscar per il Miglior film) nei panni di T’Challa alias “Pantera Nera”, sovrano e protettore dell’immaginario regno africano al centro della saga, è il macigno che grava sul seguito, dentro e fuori la finzione. Aperta, non casualmente, da una sequenza di notevole forza metanarrativa, dove la tecnologia avveniristica padroneggiata dalla principessa Shuri (Letitia Wright) non riesce a scongiurare la dipartita del fratello maggiore T’Challa.
Causata, ci viene detto, da una “misteriosa malattia” in cui, forse, possiamo scorgere il riferimento a un altro evento traumatico per l’immaginario e l’industria degli eroi in costume, la pandemia di Covid. Con lo stop forzato, ancorché temporaneo, a produzioni e uscite proprio dopo la più grande vittoria (nella fiction e al botteghino) dei nostri beniamini, quella a spasso nel tempo e nel cosmo di Avengers: Endgame. L’elaborazione del lutto sembra allora la prima e forse maggiore sfida posta dinanzi agli eroi, anzi alle eroine, del nuovo Black Panther. Devono misurarsi con la caducità e fragilità delle persone e del mondo (anche quello dei cinefumetti) tanto la giovane Shuri quanto l’ex compagna di T’Challa, Nakia (Lupita Nyong’o), e la madre di lui, la regina Ramonda (Angela Bassett).
Quest’ultima, un anno dopo la tragica perdita, governa lo Stato del Wakanda sforzandosi di preservarne l’autodeterminazione dalle mire delle potenze estere, che come al solito confondono dolosamente la sicurezza (inter)nazione con i propri interessi. E tentano, con le buone e con le cattive, di accaparrarsi il prezioso vibranio della terra wakandiana (che garantisce agli abitanti prosperità e sviluppo), mentre cercano l’ambito materiale in ogni angolo del pianeta.
Compreso il fondo degli oceani, dove inaspettatamente però urtano i confini di un’altra nazione che teme per la sua autonomia: quella, sottomarina, di Talokan, guidata dal bellicoso superessere dalle caviglie alate Namor (Tenoch Huerta Mejia). Il quale, come scopriremo, ha i suoi buoni motivi per essere irriducibilmente ostile ai nuovi potenziali colonizzatori di superficie. Nel suo mirino finisce dunque Riri (Dominique Thorne), diciannovenne studentessa prodigio afroamericana che ha inventato un congegno in grado di localizzare il vibranio. Sulle tracce della ragazza ci sono però anche le wakandiane Shuri e Okoye (Danai Giurira). Sarà guerra con il popolo subacqueo?
Attorno a quest’interrogativo ruota la prima parte del film, interessante nel suo essere più simile a un dramma fantapolitico che a un convenzionale cinecomic. L’assenza dell’originale Black Panther (i cui poteri non sono più trasmissibili, data la distruzione, nel precedente capitolo, della portentosa “erba a forma di cuore”) ci consegna al suo posto un pantheon corale di figure femminili costrette dagli eventi a maturare o a rivelare nuove sfumature. E se nel prosieguo Wakanda Forever prende la piega di un più prevedibile passaggio di testimone in favore di Shuri/Wright (parallelamente, la giovane Riri è destinata a vestire l’armatura di Ironheart), il film riesce comunque a sviluppare i temi chiave della saga. Dal rapporto tra spiritualità e scienza, con diversi lati della complessa identità wakandiana a confronto, alla polemica anticolonialista.
Questa, più che dal ruolo stavolta abbastanza in ombra degli ambigui amici-nemici americani (ridimensionata anche la parte dell’agente CIA Everett Ross, interpretato ancora da Martin Freeman), passa attraverso il debutto cinematografico di Namor e del suo reame acquatico. Aggiornato con intelligenza rispetto all’origine fumettistica per farne la perfetta controparte dei wakandiani, cui peraltro rubano la scena in alcune sequenze di notevole impatto visivo. Menzione d’onore alle musiche di Ludwig Göransson (The Mandalorian, The Book of Boba Fett), in grado di restituire ed esaltare le diverse anime del racconto: tragedia familiare, thriller internazionale ed epica pop.