«Questo film è difficile da etichettare. Per me è un dramma relazionale, la storia di una donna che fugge da un amore tossico. A questa base di partenza ho però sovrapposto altri strati: la fantascienza, l’umorismo, il thriller e l’heist movie. Il mio divertimento è stato giocare con le aspettative dello spettatore per sovvertirle il più possibile, sperando che il tutto non diventasse troppo schizofrenico». Così l’attore, sceneggiatore e regista Drew Hancock, già creatore della serie The Wastelander (2005 – 2006), ha rivelato in esclusiva a Ciak quale sia stato il pitch con cui è riuscito ad ottenere la luce verde per la sceneggiatura dello straordinario Companion (in sala dal 30 gennaio, distribuito da Warner Bros. Pictures Italia), suo esordio alla regia di un lungometraggio dopo una lunga gavetta nei corti e nelle serie tv. Il film spiazza fin dalla prima sequenza in cui, alle immagini del tenero primo incontro in un supermercato tra Iris/Sophie Thatcher (Yellow Jackets; The Book of Boba Feet) e Josh/Jack Quaid (The Boys), si sovrappone la voce off di lei che, raccontando la gioia dopo un periodo buio di vivere un momento di abbacinante chiarezza, con la sensazione che tutto sia perfetto e ogni cosa sia andata al giusto posto, dice: «Io quella sensazione l’ho provata due volte: la prima quando ho incontrato Josh; la seconda quando l’ho ucciso».
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È stato difficile convincere i produttori?
«Ho scritto Companion fondamentalmente per far sentire la mia voce e mostrare al mondo che posso mettere in scena tutti i tipi di tono narrativo: azione, umorismo, horror, thriller, ma non mi era mai venuto in mente che qualcuno volesse davvero fare questo film, quindi ora che il film sta per uscire e sono qui a parlarne con te è semplicemente pazzesco. Dopo che l’ho scritto l’avevo inviato a due produttori ed entrambi volevano realizzarlo, subito dopo è finito in mano a Zach Cregger ed eccomi qua: c’è stata molta serendipità, ho avuto fortuna».
Un grande punto di forza nel film è nell’alchimia tra Sophie Thatcher e Jack Quaid. Come è andato il casting?
«Onestamente Jack Quaid mi è caduto in grembo: non avevo ancora pensato chi volessi per interpretare Josh, ma lui e il suo team si erano procurati la sceneggiatura e mi hanno contattato: “Ti piacerebbe prendere un caffè con Jack?”. Certo che sì! Mentre ero seduto con lui ho pensato che fosse perfetto per Josh perché, prima di rivelarsi un bastardo, deve avere il fascino del bravo ragazzo, così che lo spettatore non possa giudicarlo fin quando la vicenda non si evolve, quando mostra la sua rabbia e amarezza, diventando inquietante e spaventoso».
E Sophie Thatcher?
«Nel casting ho trovato tonnellate di attrici di grande talento, perfette per la prima metà del film in cui Iris è docile, passiva, mite e sottomessa, ma che poi non funzionavano nella seconda metà, quando Iris prende coscienza e potere. Allo stesso modo quelle brave nella seconda parte non erano invece plausibili nel recitare la prima versione di Iris. Quando ho visto Sophie ho subito capito che lei era perfetta, il test finale era solo per verificare come funzionasse in scena con Jack. Abbiamo fatto una prova su zoom, purtroppo non c’era altro modo, perché Jack era a Londra, lei a Los Angeles e io a New York, ma anche così la loro chimica è emersa subito: è stato incredibile perché Sophie incarna davvero tutti i tratti caratteriali di Iris e con Jack c’è stata un’immediata sintonia».

Lei ha cominciato nel 2004 come attore in Death and Texas, quanto è stata utile la recitazione nel suo lavoro di sceneggiatore e regista?
«Non ho mai recitato perché la cosa mi divertisse, in realtà odio stare davanti alla macchina da presa. Ho un rispetto profondo per il processo della recitazione e per gli attori, perché io personalmente sono pessimo. Il fatto è che proprio non posso, non ho quel muscolo nel cervello che ti rende in grado di diventare qualcun altro in modo così fluido. Penso che tutti i registi dovrebbero provare a recitare solo per capire quanto sia difficile e rispettare gli attori. Anche se nei corti che scrivevo, dirigevo, producevo e montavo ho recitato, lo facevo solo perché così avevo una persona in meno da chiamare».
Quanto sono state lunghe le riprese di Companion?
«Parecchio lunghe perché abbiamo dovuto chiudere il set a causa dello sciopero. Avevamo in programma sei settimane di riprese e lo sciopero è cominciato quando eravamo giunti esattamente a metà del film. Quindi abbiamo dovuto interrompere la produzione e aspettare cinque mesi per poter tornare e girare il resto del film nelle restanti tre settimane. Così le nostre sei settimane sono diventate sei mesi!».
E immagino che, a complicare il tutto, non aveste girato in ordine cronologico…
«In realtà l’avevamo fatto. Di solito non ci si riesce mai, perché si gira sempre in base alla disponibilità degli attori, ma loro avevamo del tempo a disposizione e siamo stati in grado di girare in sequenza cronologica. Così durante quella pausa di cinque mesi sono potuto tornare a Los Angeles e ho montato la prima metà del film. C’erano solo un paio di lacune qua e là, ma per fortuna il tutto funzionava: non so cosa avrei potuto fare se non fosse stato così!».
Il finale fa pensare a un possibile sequel. È così?
«Onestamente non sono un grande fan dei sequel, anche se credo che Terminator 2 sia uno dei migliori mai realizzati. Per Companion ho delle idee, ma non è qualcosa che ho preso davvero sul serio. Mi piacerebbe passare tutto a qualcun altro che abbia idee più grandi, perché le mie idee sono sempre il più piccole ed emotivamente radicate possibile e sento che questa storia avrebbe probabilmente bisogno di diventare un po’ più grande. Quindi potrei non essere la persona giusta per raccontarla, anche se mi piacerebbe essere lì per seguirne gli sviluppi».