Il monello di Chaplin alle Giornate del Cinema Muto: perché è ancora un film di svolta

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Ci sono film cardine, capolavori che dividono la storia del cinema tra un prima e un dopo. Il monello (1921) che viene riproposto nella serata di apertura delle Giornate del Cinema Muto a Pordenone (5-12 ottobre), con le musiche composte dallo stesso Charlie Chaplin (che era un anche un grande compositore anche se questo passa spesso in subordine), restaurate e riarrangiate da Timothy Brock ed eseguite dall’Orchestra San Marco diretta per l’occasione da Gunter A. Buchwald, non è soltanto un omaggio sempiterno all’epoca aurea del cinema – quando quasi ogni cosa era una “prima volta” – ma anche l’occasione per rivivere un film totale, in cui si ride, si piange e si apprezza la maestria della perfezione.

Il monello: come cambiò la carriera di Chaplin

The Kid è il film che trasformò il personaggio di Charlot (come i francesi lo avevano battezzato nel 1915), trasformandolo da “vagabondo” re delle comiche dalle torte in faccia a icona universale, personaggio in grado di comunicare a tutti i pubblici del mondo. E che questo film-svolta non fosse una operazione casuale (anche se ovviamente le straordinarie conseguenze e implicazioni non furono certo preventivate) lo si capisce da vari motivi. Per la prima volta Charlie Chaplin affronta una storia strutturata in 6 bobine (rulli). Non è ancora un lungometraggio, ma sono già 63 minuti di storia completa (anche se Chaplin stesso nella riedizione del 1971 ne tagliò tre scene con la madre, interpretata da Edna Purviance).

Il Vagabondo si imbatte tra la spazzatura in un neonato urlante. Ovviamente ignora che il pargoletto è stato prima abbandonato da una madre disperata in una macchina di lusso e poi rapito per sbaglio da due malviventi che, appunto, lo abbandonano tra i rifiuti. Il Vagabondo decide di prendersi cura con immenso amore della creatura e, alla sua maniera, lo “tira su”. 5 anni dopo li vediamo assieme a operare nelle strade in una curiosa “associazione a delinquere”: il monello rompe i vetri dei negozi con micidiali sassate, il vagabondo, improvvisatosi vetraio ambulante, subito dopo passa di lì per caso, pronto alla bisogna. Senonchè la madre, diventata attrice affermata, disperatamente torna a cercarlo, coinvolgendo dottori, autorità, giornali, guardiani, riuscendolo a trovare. Alla fine, proprio mentre il Vagabondo sconsolato sembra preda dei suoi incubi, lui e il Monello si riuniranno, accolti nella mega villa della madre.

La fusione perfetta tra feuilleton e slapstick

Come sintetizza Giorgio Cremonini nel suo libro su Chaplin pubblicato da Il Castoro si tratta del “primo tentativo dichiarato di una fusione non marginale tra comico e e melodramma”. Una splendida fusione tra la cultura del feuilleton (i bassifondi, la miseria, la criminalità, i figli abbandonati, Charles Dickens ed Eugène Sue insomma) e la gag della slapstick (così si chiamano le comiche “delle torte in faccia”).

Un risultato straordinario, reso ancor più tale dalla sensibilità di Chaplin, autore che viveva in quel periodo un momento particolarmente doloroso e che tra l’altro mise nella trama anche alcuni motivi autobiografici dalla sua infelicissima infanzia: aveva appena perso il primo figlio, il suo matrimonio stava naufragando (cosa che gli successe spesso peraltro) con serie implicazioni anche legali sul suo lavoro. Per questo la lavorazione, riprese e montaggio (curato in condizioni a volte di assoluta segretezza), durò 18 travagliatissimi mesi, fatto che peraltro dalla pellicola non traspare, vista la felice scorrevolezza e compattezza dell’opera.

Jackie Coogan, la prima baby-star

A questo punto dobbiamo aggiungere che una bella fetta del merito della riuscita così universale del film, è dovuta alla recitazione spontanea e vibrante di Jackie Coogan, il Monello. Chaplin riuscì a ottenere da lui – peraltro già un esperto di palcoscenici e di vaudeville – quello che ancora oggi è considerata probabilmente la più grande performance di un bambino sullo schermo. Coogan divenne una giovane star (la prima del cinema), idolatrata e resa ricchissima. Peccato che i suoi genitori (meglio: madre e patrigno) lo sfruttarono, depredandolo, sino a costringerlo a una drammatica causa legale che fece giurisprudenza (ma questa è un’altra storia).

Curiosità: il film che ora “riposa” conservato dal 2011 nella Library of Congress’ National Film Registry, incassò tantissimo in patria (costato 250 mila dollari, ne incassò 2.500.000), ma alla fine si piazzò soltanto al secondo posto al box office annuale, battuto (alla grande) da I quattro cavalieri dell’Apocalisse, con il (non ancora) divino Rodolfo Valentino.