L’uomo del labirinto, Toni Servillo racconta il suo incontro con Dustin Hoffman: «Sul set non gli ho mai dato del tu»

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Dopo averlo visto in 5 è il numero perfetto di Igort, nel documentario Emilio Vedova. Dalla parte del naufragio di Tomaso Pessina e aver dato la voce al Re Orso Leonzio nel cartoon di Lorenzo Mattotti La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Toni Servillo continua la maratona cinematografica con cui affianca la sua intensa attività teatrale. Dal 30 ottobre vedremo l’attore nei panni di Bruno Genko in L’uomo del labirinto, nuovamente diretto da Donato Carrisi nella riduzione cinematografica che il romanziere regista ha effettuato del suo thriller omonimo. Questa volta Servillo recita al fianco di Dustin Hoffman.

Servillo, come si è avvicinato a Genko?

«In realtà non ero del tutto convinto all’idea di tornare a recitare un detective dopo aver interpretato quello in La ragazza nella nebbia, il primo film di Donato. Però lì ero un vero poliziotto, anche se corrotto, mentre questa volta sono un detective privato, un po’ cialtrone, un personaggio quasi chandleriano, ma impacciato e forse incapace. Genko si è quasi sempre occupato solo di recupero crediti, ma quando si rende conto di essere arrivato alla fine della sua esistenza non è soddisfatto di come l’ha condotta e cerca un riscatto nella riapertura del caso di una ragazza rapita quindici anni prima e di cui si era occupato senza fortuna. Del film trovo affascinante che ci siano vari livelli di labirinto, dove il più complesso è quello mentale dal quale, oltre che cercare di uscirne, ci si domanda come ci si possa essere finiti. Quello di Genko è un viaggio in una serie di gironi infernali».

Com’è recitare un malato terminale?

«Per prima cosa ho dovuto perdere sette/otto chili, ma in questo non c’è nulla di straordinario: non sono certo il primo né sarò l’ultimo attore ad averlo fatto per esigenze sceniche. Sul set poi ho lavorato, in collaborazione con il fonico, sulla qualità della voce, perché volevo essere sicuro di poter recitare con un’emissione vocale flebile, ma che fosse perfettamente udibile. Per ultima cosa c’è stata la cura della postura, come un giorno il montatore ha detto a Carrisi: “Toni s’inclina”, perché man mano che si procedeva nel racconto mi ripiegavo sempre più in me stesso, in attesa dell’ineluttabile finale».

Ci racconta l’incontro con Dustin Hoffman?

«Per gli attori della mia generazione Hoffman è un mito, lui ha venti anni più di me ed è uno di quelli che hanno fatto scendere in strada le star dell’empireo hollywoodiano, una rivoluzione immensa! Sul set l’ho sempre chiamato “Mr. Hoffman” e non gli ho mai dato del tu, proprio per mantenere la giusta distanza dovuta all’ammirazione e al rispetto che provo per lui. Naturalmente sul set ci siamo parlati molto, gli ho raccontato di come da ragazzo lo avessi visto a New York a teatro nel Commesso viaggiatore e di come mi avesse colpito il fatto che lui, attore già affermato, avesse presentato con tutti gli onori un giovane allora emergente come John Malkovich, di cui gli ho raccontato di essere anche diventato amico. Si impara moltissimo guardando recitare un attore come Hoffman. Lui mi conosceva per avermi visto ne La grande bellezza e in altri film di Paolo Sorrentino».

Tempo fa ci aveva detto di non essere interessato all’ipotesi di recitare col motion-capture. Ora, in The Irishman, si è visto che anche senza tutine di gomma ed elmetti è possibile incarnarsi sullo schermo nel se stesso più giovane. Questo le piacerebbe?

«Premetto che non ho ancora visto The Irishman, io sono un uomo di teatro, quindi credo che un attore possa andare in scena con un mappamondo, dire “io sono qui” e che questo basti a creare la complicità con il pubblico. Il bello del teatro è che non ha tempo, né luogo, né età, quindi la tecnologia non è necessaria. Al cinema però è diverso, il cinema porta un sogno sullo schermo e quindi, se è andato bene a Scorsese, ben venga anche il “morphing”».

Oscar Cosulich