Generazione Low Cost affascina il pubblico dell’Isola del Cinema

L’esordio alla regia di Julie Lecoustre ed Emmanuel Marre racconta con grazia la vita di un’assistente di volo e di una generazione in sospeso, senza scopo.

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Generazione Low Cost, Adèle Exarchopoulos

Lasciando la sala del Cinelab all’Isola Tiberina, ieri sera, risuonava all’orecchio una sola eco, le note di Alan Walker che in Faded ci chiedono: “Where are you now?”.

Dov’è che siamo adesso? Dov’è questa Generazione low cost cui accenna il titolo italiano di Rien à foutre? C’è come una sorta di scollamento, di divergenza in merito alla visione complessiva dell’opera, là dove la trasposizione italiana del titolo fa del film una vicenda universale più che personale. Ed è curioso come questa sia stata incasellata dai registi al loro esordio, Julie Lecoustre ed Emmanuel Marre, in una singola, efficacissima imprecazione.

Rien à foutre sa raccontare in modo insindacabilmente crudo il dramma di una vita spesso romanzata: quella dei giovani assistenti di volo. Se spesso si tende a rappresentare l’esistenza di chi vive sospeso tra il cielo e la terra come un’esperienza unica – fatta di viaggi, avventure e posti sempre nuovi da visitare –, seguendo la vita di Cassandre (la splendida Adèle Exarchopoulus) ci si rende conto di quanto sia desolante, malinconica e opprimente, questa vita fatta di non-luoghi inabitabili perché li attraversi e basta, ma molto abitati allo stesso tempo, come le stanze d’albergo o le discoteche”. Nemmeno la meraviglia che suscitano i post delle bellissime hostess di Emirates sanno tenere saldo l’incanto, poiché una collega di Cassandre le fa notare che: “È solo Instagram” – non la vita vera. Tutti cercano di cambiare, di migliorare la propria posizione… di scappare altrove.

La camera, spesso con riprese a mano, segue la vita di questa giovane donna che di tappa in tappa – nonostante agli amici racconti di mete incredibili vissute dal mattino alla sera – sente di “non andare mai da nessuna parte”. Una vita fatta di solitudini e rapporti occasionali, sorrisi di circostanza ch’è necessario mantenere per trenta secondi e più, di un’umanità ch’è ridotta a civile, imposta cortesia e di emozioni – “Queste emozioni che tu hai…” – da tenere dentro. Mascherate, sepolte.

Gli occhi di Cassandre sono un supplizio terribile, in certi momenti. La sua fuga da un’insopportabile dramma privato – che l’ha indotta a prendere e partire, accettando il lavoro di assistente di volo – è un qualcosa d’insostenibile, sebbene a tratti non manchino i sorrisi. Alla fine del film, però, ci si sente esattamente come lei che non riesce a fermarsi. Come lei, e un’intera generazione low-cost nell’ennesimo non-luogo: sospesi, sbiaditi, perduti.