I nostri ieri, il film sulle «nostre prigioni» con Francesco Di Leva

Il regista Andrea Papini racconta a Ciak il suo nuovo lungometraggio, in sala dal 9 febbraio, in cui il cinema è strumento di riscatto per i detenuti di un carcere

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Francesco Di Leva, I nostri ieri

Da qualche tempo, il cinema italiano d’autore sta (ri)entrando nelle carceri. E, mentre i numeri dei suicidi tra i detenuti (84 nel 2022) denunciano l’urgenza della questione, alcuni film nutrono il dibattito mettendo a fuoco gli istituti penitenziari e chi li abita. Dopo Ariaferma di Leonardo di Costanzo e Grazie ragazzi di Riccardo Milani, è il turno de I nostri ieri, presentato ad Alice nella Città e in arrivo dal 9 febbraio per Atomo Film, con anteprima a Roma il giorno precedente e poi un tour nelle principali città italiane, incluse varie tappe in Emilia.

È non a caso l’ex carcere di Codigoro, in provincia di Ferrara, la location del nuovo lavoro di Andrea Papini, outsider del nostro cinema al terzo lungometraggio di finzione dopo La velocità della luce (2008) e La misura del confine (2011). Il regista (anche produttore con Antonio Tazartes e Marita D’Elia per Atomo Film) torna a riflettere sul rapporto fra spazio e tempo, memoria e identità, attraverso la vicenda del filmmaker Luca, che coinvolge alcuni detenuti in un laboratorio dove metteranno in scena cinematograficamente la storia di come sono finiti in prigione. Partendo dal caso più grave, quello del camionista Beppe.

Nel ruolo di Luca abbiamo Peppino Mazzotta, presenza costante nel cinema di Papini: “Mi dà la garanzia di poter interpretare alla perfezione qualunque ruolo, è così bravo che finisco per trascurarlo sempre, preoccupandomi più degli altri”, confessa il regista a Ciak.

Beppe ha invece il volto di Francesco Di Leva, conosciuto da Papini assistendo allo spettacolo sul Sindaco del Rione Sanità diretto da Mario Martone. Ricco anche il cast femminile, con Daphne Scoccia, Denise Tantucci, Teresa Saponangelo e Maria Roveran.

Il contributo di quest’ultima è stato fondamentale anche in fase di scrittura: “A un certo punto – ricorda Papini – facendo le prove con Maria, lei ha cominciato a fare osservazioni estremamente lucide e puntuali, per cui le ho proposto di collaborare. L’ultima versione della sceneggiatura in tanti punti ha la sua limatura”.

Ne è nata un’opera che evita ogni cliché da prison movie: “Mi interessava, da un lato, non fare un elogio della violenza visiva – sottolinea Papini – infatti l’unica sequenza “forte” che troviamo è quella nel camion, l’unica necessaria. Dall’altro, volevo andare oltre gli stereotipi frequenti nelle rappresentazioni carcerarie al cinema: il secondino cattivo, il secondino buono… cose del genere mi sembravano banali e fastidiose”.

I nostri ieri, invece, mostra la realtà possibile, e in taluni casi fattuale, di istituti penitenziari dove non vengano meno il rispetto dei diritti e la necessità dei percorsi di riabilitazione e riscatto sociale: “Dal 2000 – afferma il regista – la collaborazione tra agenti e detenuti viene favorita perché, in base a tutti gli esperimenti che hanno fatto, la recidiva nelle carceri non costrittive è molto minore. Quando c’è un direttore illuminato, e di solito sono direttrici illuminate, c’è un cambiamento positivo”.

D’altronde, il film ci parla delle prigioni mentali, non meno di quelle fisiche. Perché, dice Papini, “tutti noi abbiamo gabbie e schemi”, e perché il suo cinema punta sempre a spaziare oltre la cronaca per “sviluppare progetti senza tempo, incentrati su legami fondamentali”, dove rivestono un’importanza chiave i silenzi e le pause riempiti dai gesti della quotidianità.

Un’idea di cinema indipendente sorretta dalla convinzione che “i film non sono ‘prodotti’, sono qualcosa che ha a che fare con la psiche degli spettatori, oggetti molto complessi: trattarli come prodotti è un suicidio”.