Così non l’avevamo mai visto Paolo Sorrentino, pronto a raccontarsi con generosità nel suo nuovo film, È stata la mano di Dio, che all’ultima Mostra del cinema di Venezia ha conquistato l’intera giuria e un meritatissimo Gran Premio.
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Non l’avevamo mai visto così nemmeno su un palco, ricevere un premio con grande commozione, mentre idealmente ci abbracciava facendoci diventare suoi compagni di classe, stretti intorno a lui in occasione dei funerali dei suoi genitori.
Un momento, quello, che ha toccato il cuore di tutti. Proprio da Lido è poi partito il tour mondiale del film, che il regista ha accompagnato al festival di Telluride in Colorado, al BFI London Film Festival, dove faceva parte della selezione ufficiale, al festival di Lione, che gli ha dedicato una retrospettiva come il festival di Zurigo, che gli ha assegnato anche il premio alla carriera “A tribute to…Award”
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Un coro unanime di consensi che hanno investito anche Filippo Scotti, uno degli interpreti più interessanti e da tenere d’occhio secondo Variety, che a Sorrentino ha invece assegnato il Variety Creative Impact in Screenwriting, riconoscimento che celebra il suo talento come sceneggiatore.
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«Amo più la scrittura della regia, probabilmente a causa della mia personalità e del mio temperamento – ha commentato il regista – e amo trascorrere il tempo da solo. Il coinvolgimento emotivo durante la fase della scrittura è maggiore perché poi sul set sei sempre impegnato a risolvere problemi tecnici e la tua attenzione è assorbita da mille altre cose. Concentrarsi sulla pagina bianca e scrivere: è quello il momento in cui sei con te stesso e puoi andare a fondo dentro di te».
È stata la mano di Dio rappresenterà l’Italia nella corsa all’Oscar per il Miglior Film Straniero, è nelle sale dal 24 novembre, e su Netflix dal 15 dicembre. Sorrentino dirigerà poi Jennifer Lawrence nel suo prossimo film, Mob Girl.
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Nel frattempo tra un concorso e una masterclass, un omaggio e un premio, ci racconta quello che è accaduto dopo quel treno per Roma.
È stata la mano di Dio sta non solo riscuotendo un grande successo internazionale, ma suscitando un enorme affetto nei tuoi confronti da parte del pubblico. Un affetto dovuto all’onestà e alla generosità con cui ti sei raccontato nel film. Come ti fa sentire tutto questo?
Naturalmente ne sono felice. Quando ero un giovane regista, come altri, ostentavo una sicurezza e forse una presunzione che hanno reso difficile creare un rapporto di affetto. Il paradosso è che, acquisendo esperienza, si diventa più vulnerabili e ben disposti e questo cambiamento ha probabilmente contribuito a migliorare le cose.
Se dovessi girare la scena che segue quella finale del film, con Fabietto sul treno per Roma, che cosa racconterebbe?
La scoperta di Roma. Ma è una scena che ho già raccontato, con un film intero, La grande bellezza.
Quali tra i consigli che il regista Antonio Capuano ti ha dato hai seguito più di tutti?
La ricerca di una forma costruttiva di conflitto. La pacificazione, nella vita è un traguardo meraviglioso, ma adattata alla creatività finisce per indebolirla.
Chi altri ti ha dato buoni consigli?
Mia moglie. Vede sempre più lontano di me e con grande lucidità. E anche i miei figli. Di fatto, sono l’anello debole del mio gruppo familiare.
A Venezia ti sei commosso citando l’amicizia che ti lega a Nicola Giuliano.Chi è stato Nicola nella tua vita?
È stato ed è l’amico più caro che ho, anche se abbiamo deciso di prenderci una pausa
lavorativa. È la persona che so di poter chiamare a qualsiasi ora della notte se ho un problema. E lui sa che può fare lo stesso con me.
Tra i tuoi compagni di viaggio c’è anche Umberto Contarello. Come pensi di essere cresciuto con lui?
Quando ero uno sceneggiatore davvero inesperto, Contarello mi ha dato fiducia e mi ha fatto scrivere con lui, che era già uno sceneggiatore affermato. Umberto mi ha aiutato moltissimo. Soprattutto a mettere a fuoco e a organizzare una scansione per immagini dell’universo visivo e sentimentale che viveva in me in maniera del tutto caotica e scomposta.
Prima del tuo esordio alla regia di un lungometraggio con L’uomo in più, quali sono state le esperienze cinematografiche e televisive che ti hanno insegnato di più?
Scrivere per Capuano, con Contarello. Mi è stata molto utile l’esperienza di sceneggiatore alla serie tv La squadra. E poi mi è servito molto scrivere da solo, a casa, tanti copioni sbagliati. È la condizione frustrante, ma necessaria per arrivare a scriverne uno che funziona.
La sera della premiazione a Venezia hai detto: «Guardate dove sono arrivato facendo film con Toni Servillo». La stessa cosa potrebbe dire lui di te? Se dovessi descrivere in poche parole il vostro rapporto ormai ventennale cosa diresti?
Non è la stessa cosa. Quando ci siamo conosciuti, Toni era già un attore teatrale molto importante, io solo un ragazzo che sognava di fare il suo primo film. Lui avrebbe avuto comunque una grande carriera cinematografica, indipendentemente da me. Devo più io a lui che lui a me. I film che abbiamo fatto insieme, senza Toni, sarebbero stati molto più
convenzionali e prevedibili. Andando avanti è nato un grande affetto e una comunanza di vedute e questo, secondo me, ha arricchito man mano i film che abbiamo fatto in seguito