Jasmila Žbanić apre il Balkan Film Festival con Quo vadis, Aida?: «Quando le guerre cominciano, è già la fine»

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Dal 29 novembre al 4 dicembre torna alla Casa del Cinema di Roma il Balkan Film Festival, l’evento dedicato al cinema dei Paesi balcanici che offrirà anche quest’anno proiezioni, temi di dibattito e incontri con alcuni tra i cineasti più importanti di quella parte di mondo. Come la bosniaca Jasmila Žbanić, che anima la prima giornata della manifestazione col suo acclamato Quo vadis, Aida?.

Il lungometraggio, presentato in concorso alla 77ma Mostra del Cinema di Venezia, distribuito nelle sale italiane lo scorso anno per Academy Two e Lucky Red, è stato trionfatore agli European Film Awards 2021, aggiudicandosi gli “Oscar” del cinema europeo per film, regia e attrice protagonista (Jasna Đuričić). Raccontando l’atroce guerra serbo-bosniaca degli anni ’90, un tema già toccato dalla regista, che esplorava le ferite lasciate da quei fatti nel film Il segreto di Esma (2006), Orso d’oro a Berlino. Stavolta Žbanić affronta direttamente uno degli episodi più agghiaccianti del conflitto, il massacro nella città di Srebrenica, compiuto dalle truppe serbe ai danni di oltre 8000 ragazzi e uomini musulmani di etnia bosgnacca.

Al Balkan Film Festival abbiamo parlato di questo film con la cineasta, che nel frattempo ha lavorato negli USA alla serie HBO The Last of Us, in arrivo a gennaio: «Un’esperienza molto interessante», afferma, «ho imparato molto. Ma sto anche sviluppando un mio progetto, e spero di iniziare a girare il prossimo anno».

Una scena di Quo vadis, Aida?

In Quo vadis, Aida? Racconti nuovamente la tragedia della guerra in Bosnia attraverso una prospettiva femminile…

Sì, ho voluto farlo perché molti film ci hanno dato una prospettiva maschile su soldati, eroi e cose del genere. Io ho vissuto durante l’assedio di Sarajevo, e la mia personale esperienza della guerra è stata diversa da ciò che ho visto nei film. Per me la guerra è stata mia madre che provava a procurarci del cibo, preservare la nostra salute psicologica, darci amore e dirci che saremmo sopravvissuti. E pensavo di dover parlare di questo, perché non lo vedevo molto rappresentato nel cinema.

Il punto di vista della protagonista sulla tragedia di Srebrenica è molto specifico e interessante, trattandosi di una donna divisa tra il suo ruolo pubblico di interprete dell’ONU e il tentativo di “favorire” il marito e il figlio in pericolo…

Ho scelto un ruolo femminile che ci offrisse una prospettiva su come funzionano le Nazioni Unite, ma doveva anche essere bosniaca: perché se fosse stata solo una lavoratrice dell’ONU non ci avrebbe restituito il quadro completo, così come se fosse stata solo bosniaca non avrebbe potuto partecipare alle attività delle Nazioni Unite. Il personaggio di Aida è un ponte tra queste due realtà, essendo una traduttrice. E ho pensato che fosse una posizione molto ambigua, perché devi essere professionale ma se è coinvolta la tua famiglia non puoi. E questo rende il suo percorso nel film estremamente drammatico.

Gran parte del film ruota intorno allo stesso luogo, ovvero dentro e fuori la base ONU. Viene in mente l’unità di luogo del teatro, era nelle tue intenzioni?

Non ho cominciato a lavorare al film con questa idea, ma scrivendo ho pensato che il fatto di svolgersi quasi tutto nello stesso posto fosse particolarmente funzionale al film, dandogli una forte immediatezza e una tensione quasi da thriller.

Verso la fine del film c’è una sequenza, forse la più impressionante, che chiama in causa esplicitamente il cinema. Che significato ha per te?

I luoghi delle uccisioni erano spesso centri culturali, cinema e fattorie. Quindi tutto ciò che veniva usato normalmente per comunicare tra le persone, o comunque per cose positive, durante la guerra veniva rovesciato nel suo opposto, usato per le cose peggiori, per uccidere, umiliare e torturare. Quella scena in quel luogo è basata quindi sui fatti realmente accaduti a Srebrenica, volevo dare d’un tatto la percezione di come un posto dove mostrare la bellezza attraverso le immagini diventasse la casa di un massacro. Ed è ciò che ci fa la guerra: fa sprofondare la nostra civiltà.

Quo vadis, Aida? è stato presentato in festival importanti come quello di Venezia, ha vinto premi come l’European Film Award ed è stato visto in diversi Paesi tra cui l’Italia. Pensi che abbia aiutato a far conoscere la tragedia del popolo bosniaco?

Credo che molti spettatori abbiano capito meglio cos’è successo, nel senso che quando si leggono articoli e si ascoltano numeri non ci fa effetto come quando lo vediamo. Questo ci dice molto del potere del cinema, non solo per quanto riguarda questo film. Perché il cinema entra sotto la pelle, negli occhi, nella mente, nel cuore, nel sangue. C’erano persone, soprattutto giovani, che non avevano mai sentito parlare di Srebrenica, e ciò che hanno scoperto li ha scioccati perché non immaginavano che una cosa del genere fosse accaduta in Europa. E c’erano appunto altre persone che già sapevano qualcosa e sono state colpite emotivamente molto di più rispetto a quando ne avevano letto. Un’altra cosa interessante è quanto tutto questo si connetta con ciò che sta accadendo oggi in Europa, a proposito dell’Ucraina.

Vedi delle analogie tra la guerra che racconti nel tuo film e il conflitto di questi giorni in Ucraina?

Ne vedo molte: il modo in cui è cominciata, le ragioni che ha addotto Putin sono le stesse che usò Milošević rispetto al lato serbo della Bosnia, mandando soldati come fossero liberatori. Ma all’epoca nessuno ci mandò armi per difenderci: quando ero adolescente in Bosnia ero arrabbiata per come l’Europa non reagisse, rimanendo a guardare ciò che succedeva. Per i bosniaci c’era l’embargo sulle armi, per gli ucraini almeno non è stato così. Però vedo che anche stavolta l’Europa è incerta su cosa fare e su che ruolo avere, e questo è assurdo. Credevo che questi giorni di barbarie nel nostro continente fossero finiti, e oggi invece li vediamo di nuovo. È davvero devastante che non abbiamo imparato nulla e non abbiamo trovato un modo di non far scoppiare le guerre. Perché quando le guerre cominciano, è già la fine.