Festival di Locarno: tre film italiani da non perdere

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Piuttosto folta la pattuglia italiana al Festival di Locarno. Nove sono infatti le opere in cartellone tra le varie sezioni, cui vanno aggiunti gli omaggi ai Taviani con Good Morning Babilonia e a Bruno Bozzetto con Vip, mio fratello superuomo presentato tra le “Histoire(s) du cinema”. Di Likemeback ne abbiamo già parlato i giorni scorsi. Ora vi presentiamo tre film “azzurri” che, per motivi diversi, ci hanno colpito in questa prima settimana di proiezioni, promettendo che riprenderemo il discorso a fine festival quando avremo visto anche gli altri titoli annunciati.

Innanzitutto “Fuori concorso”, ecco Ora e sempre riprendiamoci la vita, opera di montaggio che l’indomito (80 primavere!) cineasta Silvano Agosti ha realizzato assemblando immagini di storia “ribelle” dal 1968 al 1978, dalle lotte studentesche sino all’omicidio Moro che il regista sottolinea come essere stata la tomba (almeno in Italia) di quel formidabile movimento collettivo che, come una rivoluzione lunga 10 anni, ha trasformato alla radice il nostro paese. Alternate alle immagini (dagli scontri universitari a Roma di valle Giulia, ai cortei operai, al Movimento studentesco milanese, sino alle atroci repliche della reazione fascista con le stragi di Piazza Fontana, Brescia e dell’Italicus), parlano protagonisti dell’epoca, alcuni che oggi non ci sono più, come Franca Rame, Dario Fo o Mauro Rostagno, da cui rubiamo una frase meravigliosa: “il 1968 è stato un innamoramento collettivo terrificante! Eravamo un corpo unico”. Un documento compatto, da militante non esausto (del resto ammonisce nel documentario Oreste Scalzone: “liberare tutti vuol dire lottare ancora”) e, per chi l’ha vissuto (come chi scrive) emozionante e commovente!

Nel Concorso internazionale, ha spiccato invece la sobrietà, quasi friulana vorrei azzardare, di Menocchio di Alberto Fasulo, che ricostruisce la vicenda di Domenico Scandella di Montereale, detto appunto Menocchio (che ha il volto severo e nobilmente segnato da rughe di Marcello Martini), mugnaio che verso la tarda metà del 1500 costruisce una sua personale teologia e viene per questo accusato dalla Chiesa e perseguitato sino al martirio: “Lui nega il potere che Cristo stesso ha dato alla Chiesa, ha detto che dovrebbe essere più povera”. Un messaggio che oggi suona assolutamente condivisibile (ma per saperne di più andate a recuperare lo splendido studio storico di Carlo Ginzburg intitolato Il formaggio e i vermi), sottolineato senza artifizi iper-tecnologici, con luci naturali su volti e corpi che spesso escono dall’ombra, illuminati come un quadro post-Cavaraggesco. Austera ricostruzione storica per un tipo di cinema certo non incline al puro divertimento.

Cosa che invece è la coproduzione Un nemico che ti vuole bene, commedia finto criminale di Denis Rabaglia (nato in Svizzera e che già al festival ticinese nel 2000 aveva presentato Azzurro, con Paolo Villaggio), costruita praticamente tutta sulla corpose spalle di Diego Abatantuono, nella sezione Piazza Grande. L’intreccio parte quando il frustrato professore di astrofisica Enzo Stefanelli salva un giovanotto napoletano ferito (Angelo Folletto) che si rivela essere un killer. Per sdebitarsi, questi si offre di eliminare un suo “nemico”. Per quanto sconvolto e recalcitrante, Enzo non potrà fare a meno di constatare che, tra familiari e colleghi, sono in tanti, troppi, ad essersi approfittati di lui e “meritevoli”. Come sempre nei film interpretati da lui, Diego è il fattore positivo, anzi decisivo, con le battute che partono spontanee e la malinconica fragilità del personaggio, peccato che la sceneggiatura non gli abbia fornito “avversari” altrettanto ben costruiti, nonostante la presenza di ottimi attori (da Massimo Ghini a Antonio Catania, per arrivare a Sandra Milo in cameo).