I Feel Good, Jean Dujardin e il (falso) sogno capitalista chiudono il Festival di Locarno

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Un uomo in accappatoio e ciabatte candide, da Grand Hotel, cammina pericolosamente ai bordi della tangenziale. Comincia così il nuovo film dei due registi anarchici francesi Benoît Delépine e Gustave Kervern, che chiude stasera il Festival di Locarno #71, in Piazza Grande.

Quell’uomo è Jacques (Jean Dujardin), appena fuggito senza pagare l’hotel di lusso in cui alloggiava. Si dirige verso la comunità Emmaüs di Lescar Pau, dove – tra preghiera e azione – vive la sorella Monique (Yolande Moreau). Jacques non vede Monique da anni, da quando i genitori lo cacciarono di casa in quanto parassita viziato e cinico. Ora finge di voler riallacciare i rapporti per ragioni affettive. In realtà, anziché cercare di integrarsi nella comunità fondata dall’Abbé Pierre, il cialtrone “gassmaniano” ed edonista Jacques cerca di convincere la sorella e alcuni poveri cristi del luogo – segnati da licenziamenti, frustrazioni o problemi mentali – a inseguire il sogno “capitalista” di ricchezza e perfezione estetica. Il piccolo gruppo partirà alla volta della Bulgaria per un lifting a basso costo. Nulla andrà come previsto.

Delépine e Kervern (Louise Michel, Le Grand Soir) proseguono il proprio personale percorso cinematografico su personaggi eccentrici e poveracci raccontati in chiave scorretta e surreale, un umorismo sempre molto “Grolandais” (dal loro programma tv, Groland). Stavolta mostrano un attualissimo confronto-scontro fra l’ideale capitalista votato allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e il fallimento comunista (la lunga sequenza finale in Bulgaria tra le macerie del regime).

Tra i dialoghi più memorabili e assurdi, quello fra lo spavaldo Jacques e l’umile bibliotecario della comunità: «Come diceva Proust, “Un piccolo culo che lavora è sempre meglio di un grosso culo che legge”». «Proust non ha mai detto una cosa del genere». «Sì, ma avrebbe potuto dirlo… in quanto gay… e avrebbe avuto assolutamente ragione!».

Gli autori hanno davvero lavorato e girato all’interno della comunità Emmaüs di Lescar Pau, dove sono stati accolti come fratelli. Raccontano Delépine e Kervern: «Ci hanno accolto subito senza sospetto, grazie all’amico DJ Jules-Édouard Moustic… Non era così scontato… Per noi era un po’ come quando, in un western, due “stranieri” piombano all’improvviso nel saloon!».

L’abituale antitesi tra apparire ed essere in I Feel Good viene declinata in maniera inattesa in un finale assolutamente destabilizzante e spiazzante, in cui gli autori sembrano dirci che siamo anche come appariamo. L’abito fa il monaco.

Osservava il mite quanto “sovversivo” Abbé Pierre (che si vede spesso nel materiale di repertorio e nel graffito gigante all’ingresso della Comune): «Più che nella ricerca e nel possesso dell’oro, la felicità consiste in una vita al servizio degli altri…».

Non è difficile immaginare cosa direbbe Pierre dell’ulteriore imbarbarimento contemporaneo.

Luca Barnabé