Solo un paio di mesi fa era stato Stephen King a consigliarne la visione, definendo The Rule of Jenny Pen “uno dei migliori film che abbia mai visto quest’anno”, e se lo dice lui… Onore al merito, ulteriore, al Torino Film Festival 2024 di aver inserito il film del neozelandese James Ashcroft (Coming Home in the Dark) nella sezione Zibaldone della sua edizione 42, un’opera seconda che vive dello scontro tra i due immensi protagonisti, che ancora il ‘Re del brivido’, sui propri social, aveva sintetizzato così: “Geoffrey Rush è il protagonista, mentre John Lithgow interpreta uno psicopatico geriatrico con una marionetta malvagia“, invitando tutti a non perderlo, quando fosse apparso su Shudder, o altrove, aggiungeremmo noi.
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IL FATTO
Stefan Mortensen (Rush), giudice misantropo prossimo alla pensione, viene colpito da un ictus durante una seduta in un’aula di tribunale ed è costretto a farsi ricoverare in una casa di cura, dove si rifiuta di collaborare con medici e sanitare e maltratta il suo compagno di stanza Tony Garfield. Nella struttura vive anche Dave Crealy (Lithgow), un paziente di lunga data che tiene gli altri residenti in un oscuro regno di terrore con un sadico gioco di volontà chiamato “La regola di Jenny Pen”, eseguito con l’aiuto della sua bambola della demenza. Quando l’anziano psicopatico rivolge la sua attenzione a Mortensen e Garfield, i due residenti trovano un inatteso legame e decidono di porre fine al suo potere.
L’OPINIONE
“Un film sul potere, su una tirannia nata laddove meno te l’aspetti” lo definisce il suo regista, e in questo senso The Rule of Jenny Pen è sicuramente un agghiacciante catalogo di crudeltà e momenti difficili da digerire. Un “horror”, per le sensazioni di disagio e il malessere quasi fisico che trasmette, per quanto sia una categorizzazione che ridurrebbe l’impatto della drammatica storia ambientata nella casa di riposo (e inizialmente apparsa nel racconto di Owen Marshall, da un altro racconto del quale il regista aveva adattato il suo precedente film e che appare nel film in un cameo, tra le comparse del tribunale della scena iniziale).
A volte non opporsi al male che altri fanno equivale a esserne responsabili, e i peggiori cattivi, ci ricorda il film, sono quei vigliacchi capaci di sentirsi potenti solo quando agiscono nell’oscurità, ma come ribellarsi? E se fosse meglio accettarlo e subire? Interrogativi sui quali il nostro ‘eroe’ non ha dubbi, abituato ad amministrare la giustizia, pur se burbero e scostante. E naturalmente portato a rifiutare il regno del terrore organizzato dal ‘boss’ locale, e di umiliarsi dinanzi a una bambola.
Un film agghiacciante, a modo suo, dalla strana preparazione, non incoerente, non diseguale, ma certo dal ritmo molto particolare, lento come lo scorrere del tempo nella casa di cura e, dove gli anziani vivono giornate identiche a sé stesse, anche per gli appuntamenti più o meno fissi con il crudele Crealy e la sua Jenny. Un abile stratega, esperto del territorio in cui si muove e delle insidie che nasconde, ma forse ormai troppo abituato alla sottomissione altrui da non riconoscere le avvisaglie del pericolo. Come anche del cambio di ritmo, improvviso, inatteso, che il film regala al momento giusto.
Insieme a una buona dose di inquietudine, almeno per i tanti di noi poco avvezzi a tanta crudeltà, o forse istintivamente portati a rifiutare le notizie – pure non rarissime – relative alle violenze sugli anziani nelle case di cura. Una cattiveria che evidentemente diventa, narrativamente se non cinematograficamente, accettabile quando a perpetrarla sono gli anziani stessi. Vittime delle proprie assenze prima ancora che delle ingiurie del tempo, come diceva De André, ma proprio per questo desiderosi di rivincita, in qualsiasi modo sia possibile, contro il tempo, la vita, la malattia, l’ineluttabile. Come dimostra la reazione – toccante e splendida – dell’ex campione maori neozelandese, per un istante tornato sull’Olimpo grazie alla sua Haka.
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Ammettiamo un problema di imprinting con John Lithgow che ogni volta che vediamo ci riporta alla mente lo schizofrenico protagonista di Doppia personalità, il Raising Cain di Brian De Palma del 1992, che consigliamo a tutti. Per il resto, questo The Rule of Jenny Pen va sicuramente ascritto in quel genere di recente sviluppo al quale si fa generalmente riferimento come horror o thriller geriatrico e del quale vi invitiamo a recuperare il The G di Karl R. Hearne e il tedesco Old People di Andy Fetscher.