Tre donne, di Sylvia Plath: le parole dei registi

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La maternità, in tutte le sue sfumature, è in Tre donne, di Sylvia Plath il tema attraverso cui raccontare la donna, le sue emozioni e le sue fratture in una dimensione più ampia, al di là dei ruoli e dei valori imposti dalla società. Presentato domenica 28 novembre al 39° Torino Film Festival nella sezione Fuori Concorso/ Incubator, il film di Bruno Bigoni e Francesca Lolli è un’appassionata e profonda esplorazione del dramma della condizione femminile così come l’autrice americana del secolo scorso lo declinò nella sua poetica. La maternità rappresenta l’elemento scatenante di una condizione psicologica ed emotiva generata dai sentimenti di angoscia, dolore, solitudine e paura che hanno caratterizzato la stessa vita di Plath. «Sylvia Plath ha un’attualità e una modernità straordinarie, ma in chiave poetica – ha spiegato Bruno Bigoni -. Ci interessava soprattutto raccontare l’immaginario di queste tre donne». Fedelissimo al testo di Plath, originariamente concepito come radiodramma, Tre donne alterna tre voci femminili che riflettono e raccontano le sensazioni e le emozioni legate alla propria esperienza di maternità, in una sorta di flusso di coscienza interiore sostenuto da immagini e musiche che accompagnano e accarezzano le parole. «Abbiamo voluto restare fedeli – ha aggiunto il regista- alla filologia linguistica del testo, che infatti è recitato quasi integralmente in inglese, per rispettare la parola e la metrica poetica».

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Nel film la prima voce è quella di una casalinga che desidera e ha un figlio, ma dietro alla semplice naturalezza di questo sentimento si nascondono sottili paure. La seconda voce è quella di un’impiegata che attende il figlio a lungo desiderato e che, come altre volte, perderà. La terza voce viene da una studentessa che rifiuta l’idea della maternità, ma che decide di portare ugualmente a termine la gravidanza, per poi lasciare che siano altri a crescere suo figlio. In Tre donne, di Sylvia Plath le tre voci femminili finiscono per formare l’immagine di un’unica donna che dà una forma nuova al linguaggio difficile, ma formalmente perfetto e incisivo, della poetessa. «Nel poema stesso la maternità abbandona i toni festosi e gioiosi tipici della tradizione imposta dall’uomo, ha spiegato Francesca Lolli,  Con Bruno abbiamo cercato di entrare dentro il suo flusso di coscienza di Plath, dentro questo dolore estremo che lei usa per raccontare il dolore del mondo femminile». Nel film la figura dell’uomo compare attraverso una sorta di maschilismo introiettato nelle stesse donne che prende forma visiva attraverso uno dei personaggi che compare, quasi sfocato, nel racconto della donna che non riesce a portare a termine la sua gravidanza. «La figura maschile, anche nelle parole di Plath, rappresenta sempre un mondo estraneo – ha detto la regista -. Gli uomini in quest’opera sono piatti, ottusi e vorrebbero che tutto il mondo fosse altrettanto piatto». Si tratta di due mondi distanti il cui esito di dolore e rottura è tutto contenuto in una delle frasi della poetessa, “mi sto rompendo in due come un mondo”. Francesca Lolli ha commentato: «È una delle frasi più belle che lei dice ed ha una potenza incredibile».

Vania Amitrano