I figli del fiume giallo, Zhangke Ja racconta la Cina con un ritmo ipnotico: la recensione

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I figli del Fiume Giallo

I figli del Fiume Giallo (Jiang hu er nü) Cina, Francia, Giappone, 2018 Regia Zhangke Jia Interpreti Tao Zhao, Fan Liao, Yi’nan Diao Distribuzione Cinema Durata 2h e 16′

  In sala dal 9 maggio

LA STORIA – Nel sottobosco criminale di una città di provincia, Qiao, figlia di un minatore sindacalizzato, si è legata a un gangster molto rispettato e adulato, Bin (“Lui è un pesce troppo grosso per questo piccolo stagno”). È un amore potente, tanto che per difendere il compagno minacciato da una gang emergente di teppisti, Qiao impugna una pistola e spara. Sarà condannata a 5 anni in carcere. Quando uscirà, proverà a cercare il suo uomo che si è nel frattempo trasferito in un’altra città. Ma attenzione: la Cina in cinque anni può cambiare radicalmente, così come nelle relazioni e nei sentimenti. Questo però non per Qiao.

L’OPINIONE – Zhangke Ja, in questo momento, è probabilmente il più importante cineasta cinese. Il suo cinema scava in profondità tra le contraddizioni della civiltà contemporanea, a porsi domande scomode e mostrando i sintomi di una malattia dello spirito che sembra aver infettato tutta una società caoticamente proliferante, tra modernità immorale, atavicità insensata, ipersviluppo incontrollato e disumanizzante. E l’occidente sta seguendo con estremo interesse il suo lavoro, premiandolo ai festival più prestigiosi (tra cui un premio alla sceneggiatura di Il tocco del peccato, 2013, a Cannes, il premio del pubblico a San Sebastian 2015, per Al di là delle montagne, il premio per il miglior documentario a Venezia nel 2007 per Wuyong, più il – profetico dobbiamo dire a questo punto – Leone d’oro per Still Life).

I figli del Fiume Giallo

I figli del fiume giallo (in concorso a Cannes) è scandito da un ritmo ipnotico, in due ore e un quarto racconta quindici anni di vita di Qiao (che è interpretata meravigliosamente da Tao Zhao, moglie e musa del regista), la sua “testardaggine” sentimentale (“Ho vissuto da fuorilegge per venire a trovarti“), la sua grinta resistente a tutto. È capace di mentire di fronte alla polizia e lo fa. È capace di frodare e lo fa. È capace di litigare allo spasimo e lo fa. È capace di vagabondare per la Cina senza una possibile prospettiva e lo fa. È capace di gestire il suo futuro e quello della persona amata, a dispetto della di lui miserabilità morale e lo fa. Il film, quasi sonnambolicamente, slitta dalla storia d’amore al documentario sociale, dal gangster movie (pensando un po’ a John Woo, il cui film The Killer è quasi citato in una colonna sonora in cui spicca anche, chiassosa e grottescamente allegra, YMCA dei Village People), al road movie.

I figli del Fiume Giallo

Ogni tanto Zhangke Jia concede stupende (e gratuite) sequenze che alimentano il mistero di un film enigmatico, come una splendida carrellata in orizzontale su dei passeggeri pronti a imbarcarsi e fissati in un tableaux vivant o l’apparizione di lampi misteriosi in un cielo in cui vorticano nuvole nerissime, con un Ufo che solca l’orizzonte. Non è comunque una bella Cina, quella che ci racconta il cineasta; aldilà della gentilezza formale, sembra abitata da un popolo di testimoni neutri, di voyeur senza spirito di rivolta, un’umanità apatica, meschina, magari allucinata. In cui la ostinata, persino irrazionale, determinazione di una sola donna (sola) ci appare come l’unico aspetto vitale di un mondo cui hanno rubato l’anima, dove milioni di persone possono essere spostate per decisione governativa.