40 anni con i fratelli Blues

La 56ma edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Pesaro, tra gli eventi in cartellone festeggia l'anniversario di The Blues Brothers. Genesi e aneddoti sul film che quest'anno festeggia 40 anni.

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La 56ma edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Pesaro, tra gli eventi in cartellone, festeggia l’anniversario di The Blues Brothers, di John Landis, con una attesissima proiezione in piazza su grande schermo. Proviamo qui sotto a sottolineare le ragioni per cui un’opera inizialmente male accolta si è trasformata in uno sfolgorante cult.

Ci sono film che sono punti cardinali, porte che chiudono un’epoca e ne definiscono un’altra. The Blues Brothers – di cui onoriamo quest’anno il 40ennale, dato che è uscito il 20 giugno 1980 in Canada e in Usa per esordire in Italia il 13 novembre – visto retrospettivamente (ma sospettiamo che Landis – che il 3 agosto ha toccato i 70 anni – e gli autori ne avessero coscienza) è uno di questi felici pochi, sociologicamente parlando.

Incrociando il musical rock con la nostalgia reducista, la comicità demenziale con il gusto di una generazione resa cinica ma ancora abbarbicata alle proprie motivazioni libertarie, senza contare la fisicità punk di un attore che giocava a infrangere limiti e convenzioni (Belushi, ovviamente), The Blues Brothers intercettò gli ultimi umori ribelli e le pulsioni viscerali di quei venti/trent’enni, in verità più europei che americani, che si avviavano, molti non senza un indefinito senso di smarrimento e disperazione, verso gli anni del riflusso, delle metropoli da bere e del primato del privato (o “edonismo reaganiano” secondo la felice definizione di D’Agostino).

 

In verità, l’idea del film non fu di John Landis. Peraltro con la comicità “scema” e iconoclasta aveva già dimostrato di saperci fare, con “Slok”, 1973, “Ridere per ridere”, 1977 e soprattutto con “Animal House”, 1978, trampolino di lancio per il talento debordante di un emergente della tv giovanile-goliardica, John Belushi (30enne di Chicago che diventerà il “secondo albanese più famoso della storia dopo Madre Teresa di Calcutta”). Nello show “Saturday Night Live”, Belushi e il fraterno collega Dan Aykroyd (canadese classe 1952), tra i tanti personaggi, i due avevano inventato la coppia dei fratelli Jake “Joliet” ed Elwood, fanatici – lo dice il cognome – del Blues, specie quello nella versione elettrificata che furoreggiava a Chicago nel dopoguerra, magari attento anche alle declinazioni soul (di marca rigorosamente Stax mi raccomando, non Motown!). Sobriamente in nero, con Ray-Ban Wayfarer da sole e cappellino afro-americano semi Black Panthers (una mise diventata leggendaria, poi ripresa e omaggiata ovunque, persino a partire dai ben diversi Men in Black!), incisero un album nel 1978, “Briefcase of Blues”; soprattutto, la leggenda dice all’Holland Tunnel Blues Bar mentre ascoltava Sam & Dave al juke box, Aykroyd ebbe l’idea (assieme a Ron Gwynne) di sviluppare in un film tutte le cose che piacevan loro, il blues, la satira alle istituzioni e alle convenzioni, la comicità free, per due ore di adrenalina e nostalgia su pellicola.

Le majors si tuffarono sul progetto. La spuntò la Universal che, memore del successo di “Animal House”, affidò a John Landis la direzione. Entusiasta, accettò e insieme ad Akroyd sviluppò una sceneggiatura assurda e travolgente, dove due “orfanelli” si impegnano a salvare l’orfanotrofio in cui sono cresciuti, oberato dai debiti. “In missione per conto di Dio”, Jake ed Elwood riformeranno la band di un tempo, andandoli a prendere uno per uno, inimicandosi via via un’eterogeneo e massiccio gruppo di assurdi e biechi reazionari (poliziotti, il trucido gruppo country “The Good Ole Boys”, una sezione di american neonazi da parata: “io li odio i nazisti dell’Illinois”). Riusciranno a raggranellare la somma in un mega concerto blues e la consegneranno appena in tempo prima di finire in galera, dove “sobilleranno” le pance dei co-prigionieri al ritmo della elvisiana “Jailhouse Rock”.

Tralasceremo qui il budget che si andava gonfiando paurosamente, le riprese in un clima quanto meno “allegro”, con i produttori sempre più affannati a tamponare quello che sembrava un progetto fuori controllo: solo per l’inseguimento in auto furono impiegate 70 macchine, cifra da Guinness dei primati!

Già le auto…su tutte, indimenticabile la “Bluesmobile”, una Dodge Monaco 440, “ritoccata” e messa a dura prova (“E’ partito il pistone”, “ma poi torna?”).

 

Con una band di stagionati musicisti di lungo corso attorno e una serie di ospiti da urlo che contribuirono a far sforare il budget sino alla cifra di 27 milioni di dollari e mezzo (tra cui James Brown, Aretha Franklin, Ray Charles, John Lee Hooker, soprattutto Cab Calloway in una meravigliosa performance), il film partiva sotto i più cupi auspici. Oltretutto su Belushi gravava anche il sospetto di non essere proprio una star, visto che “1941 Allarme a Hollywood” di Spielberg si era rivelato un cocente fallimento. Ma come può uno scoglio arrestare il mare? Corposo, assurdo, dalla comicità geniale e stralunata, capace di saltare, di ballare e di cantare a tutta forza, l’eccessivo albanese aveva le doti per diventare quel talento unico e memorabile che poi è diventato. Chi può scordare il suo ammicco con sopracciglio alzato guardando nella macchina da presa (trucchetto inventato da Oliver Hardy)? Qui lo usa per “scaricare” la ex, ovvero Carrie Fisher: «Non ti ho tradito, dico sul serio. Ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette, non è stata colpa mia, lo giuro su Dio!»

Gli incassi in patria furono deludenti, 57 milioni di dollari, in compenso all’estero sfavillò, con incasso totale che levitò a 115 milioni di dollari, cui fecero seguito le riedizioni e poi l’home video. La critica che lo aveva stroncato si dovette allora ricredere. Il film aveva decisamente generato un culto, con la colonna sonora vendutissima (dopo fu considerata addirittura “la più bella della storia del cinema”) e i fratelli Blues impegnati non solo sullo schermo ma anche sui palchi. Purtroppo quella che poteva essere una stella luminosissima nel firmamento divistico si trasformò in una tragica meteora.

John Belushi, il 5 marzo 1982 fu trovato morto, overdose, a soli 33 anni, proprio mentre stava cercando di ingentilire verso la comedy la sua verve comica. Così il sequel del 1998, pensato da Aykroyd e Landis, “Blues Brothers: il mito continua”, con l’ottimo e altrettanto corpulento John Goodman a sostituire (ma come avrebbe potuto?) Jake “Joliet” (il suo personaggio si chiama Mighty Mack McTeer) si rivelò un malinconico tonfo, a dispetto della grande musica blues che impreziosiva la trama.