Molti pensavano che ci facessimo la guerra con i nostri dizionari, in realtà era un piacere scambiarceli e citarci a vicenda. Se n’è andato Morandini, grande critico cinematografico, colto, gentile e obiettivo
DI PAOLO MEREGHETTI
Gli piaceva scherzare con la battuta di Elia Kazan, secondo cui ai critici tocca fare come «gli eunuchi nell’harem: guardare ma non toccare ». Eppure in tutta la sua lunga carriera Morando Morandini (scomparso il 17 ottobre a 91 anni) non aveva rispettato per niente questo suggerimento. E non mi riferisco solo alla sua breve carriera come attore – in Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci aveva preso il ruolo che Cesare Garboli non aveva voluto accettare: quello del maestro (di sinistra) del protagonista; in Remake di Ansano Ginnarelli appariva nei panni di se stesso, così come nel film del genero Amedeo Fago dedicato alla moglie di Morando, Laura, o nei documentari che Tonino Curagi e Anna Gorio, Daniele Segre e Luigi Faccini gli avevano dedicato. Penso proprio alla sua carriera di critico, al suo impegno «militante », che lo avevano portato a comportarsi in modo completamente opposto ai guardiani dell’harem. Non era conciliante né ossequioso, Morando. E non si preoccupava certo se il suo giudizio non concordava con la maggioranza.
Negli anni Cinquanta Cinema nuovo lo aveva attaccato in maniera volgare e offensiva perché aveva avuto l’ardire di difendere Nicholas Ray e Otto Preminger: oggi sembra impossibile il contrario ma in anni di âdittatura aristarchianaâ ci voleva un certo coraggio a sostenere quel cinema americano. E gli era andata peggio nel 1971, quando i produttori di Scipione detto anche l’africano di Magni lo avevano trascinato in tribunale per difendersi da una recensione dove sconsigliava il pubblico ad andare a vedere il film. No, Morando non le mandava certo a dire e questa non era la minore delle sue qualità. In anni in cui la critica cinematografica stava capitolando di fronte all’incalzare della televisione e inseguiva un certo infelice âconsociativismoâ (diamoci una mano tra recensori e autori contro l’assedio degli altri mass media), i suoi articoli sul Giorno erano una specie di isola dove chiedere rifugio.
Si poteva anche dissentire, ma mai prescindere: i suoi giudizi erano sempre motivati e argomentati, rimandavano a un mondo di letture e di suggestioni (letterarie, artistiche, culturali in senso lato) che ti aprivano la mente. Non era come quei critici che venivano dalla letteratura (o sognavano di entrarci) e che facevano sfoggio di citazioni e di belle frasi. La prosa di Morandini era secca, essenziale, efficace. Non ci girava intorno: andava dritto all’obiettivo. Se a volte si concedeva un vezzo retorico, era quello di una battuta con cui chiudere i suoi ragionamenti, ma solo per dare più efficacia alla sua dimostrazione. Lo dico con una certa cognizione di causa, perché nella seconda metà degli anni Settanta gli ho fatto da vice al Giorno, dividendo con lui la fatica quotidiana del lavoro di recensore. E naturalmente imparando il più possibile. Poi le nostre strade si sono divise e per qualche osservatore superficiale saremmo diventati anche ânemiciâ, ognuno avendo redatto un personale dizionario dei film. Ma era una concorrenza solo di superficie: ad ogni nuova uscita, ci scambiavamo i nostri âpartiâ, e senza passare attraverso le rispettive case editrici ma come fanno due amici, di persona. Il suo dizionario io lo consultavo regolarmente e più di una volta ho usato frasi delle sue critiche, citandone naturalmente l’autore, per arricchire le mie schede. E Morando ha fatto lo stesso. Adesso che non c’è più la critica italiana sarà certamente più povera. Ma i suoi insegnamenti e il suo esempio di coerenza e dirittura non passeranno mai.