A Cooler Climate, James Ivory racconta il suo passato alla Festa del Cinema

Un doc nato dal viaggio del 1960 del regista premiato con il premio alla Carriera

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James Ivory alla Festa del Cinema di Roma

Dopo trentadue film da regista, quattro candidature all’Oscar per la regia e una statuetta per la migliore sceneggiatura (quella vinta a 89 anni per Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino), per James Ivory è arrivato il momento del Premio alla Carriera della Festa del Cinema di Roma. Un’occasione per celebrare il Maestro statunitense di 94 anni, 65 dei quali passati dietro la macchina da presa, e per presentare il suo ultimo A Cooler Climate, documentario nato dal materiale girato nel 1960 durante un viaggio in India e in Afghanistan.

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A dirigerlo con lui, e ad accompagnarlo sul palco capitolino, l’amico Giles Gardner, che ha raccontato così la genesi di un quasi imprevisto “progetto personale“: “Io a Parigi, lui a New York, ogni tanto passavamo un paio di giorni insieme, ne parlavamo, e ogni volta che veniva mi portava un nuovo tesoro… Una antica mappa dell’Afghanistan, appunti, un diario di quando girava a Kabul, l’ultima volta persino delle lettere che aveva scritto a sua madre, tutte cose carinissime che hanno aperto un percorso completamente diverso e che sono diventate la base del film”.

Nel quale il pubblico di Roma (soprattutto chi non potrà assistere alla sua Masterclass in programma venerdì 14) potrà scoprire molti segreti del grande filmmaker e viaggiatore attraverso immagini e ricordi, delle meraviglie di Kabul e Bamiyan fino alle confidenze sulla propria infanzia in Oregon e la propria identità sessuale. Un viaggio che ancora dura e che – come quelli di tutti – si sviluppa intorno al mondo e all’interno di noi stessi.

James Ivory alla Festa del Cinema di Roma

Sono passati 60 anni da quel viaggio, perché ora?
E’ stato quasi per caso, in realtà. Ogni tanto, nel corso degli anni, mi capitava di riguardare quel girato, organizzavo proiezioni a casa per farlo vedere agli amici, me poi lo rimettevo nella scatola e me ne dimenticavo. Fino a che che non l’ho fatto vedere a Giles, che mi era venuto a trovare, ed è stata una rivelazione per lui.

Cosa sarebbe dovuto diventare, invece?
Nel 1964 con Ismail Merchant abbiamo prodotto il documentario The Delhi Way, una sorta di ritratto storico della città. Mentre ci stavo lavorando, ero andato a Kabul perché aveva un clima più freso, come dice il titolo, di quello indiano, ma quando sono arrivato lì ho visto che c’era pochissima storia da fotografare. Non c’erano i palazzi meravigliosi lasciati in India dai Mogul, tutto quel che c’era era la vita della gente che vedevo sotto i miei occhi. Perciò giravo tutto quello che potevo, che mi interessava o incuriosiva, tipo come si facessero i mattoni di fango, che non avevo mai visto in nessuna altra parte del mondo. Non avevo una idea formale di cosa sarebbe diventato, ero solo lì per sfuggire il terribile caldo di Delhi, ma molti film non sono programmati, succedono, uno continua ad aggiungere cose, e poi eccolo là!

La Kabul che mostra è davvero diversa da quella degli ultimi anni, che cosa prova a riguardo?
Ho letto tutto quello che passava sui notiziari, quando gli stranieri hanno iniziato a interessarsi all’Afghanistan – gli inglesi e i sovietici prima, e gli statunitensi poi – e a volerlo trascinare dalla propria parte, ma solo degli sciocchi possono pensare di conquistare quel Paese. E’ qualcosa che ha continuato a succedere negli anni, una storia che si è ripetuta. A parte il caso dell’ascesa dei Talebani, che erano comunque afghani, sembra impossibile che degli stranieri possano riuscire a dominare l’Afghanistan, questo ho pensato.

Dopo tanti anni di cinema, quale film è rimasto nel suo cuore?
Uno che verrà mostrato anche qui alla Festa del Cinema di Roma, Mr. & Mrs. Bridge con Paul Newman e Joanne Woodward, credo sia davvero il mio preferito tra i tanti fatti. Anche perché molto autobiografico. Il film si svolge a Kansas City, nel Missouri, ma tutto – dalle famiglie coinvolte alla comunità in cui vivono – assomiglia al contesto sociale e alla città in cui sono cresciuto, in Oregon. E’ molto personale, gli sono molto affezionato e credo sia riuscito molto bene.

Ci piace pensare che anche il Chiamami col mio nome di Luca Guadagnino, con cui ha vinto l’Oscar, possa avere un posto particolare…
Quella è stata una situazione molto diversa. Un mio caro amico, che lavora nello Stato di New York come restauratore di case antiche, era impegnato con una coppia che aveva acquistato i diritti di quel romanzo. Ne avevo sentito parlare, ma non di più, e visto che loro volevano farne un film mi hanno proposto di risultare come produttore esecutivo. Quando poi è arrivato Luca Guadagnino, mi ha chiesto di essere il co-regista del film, con lui, ma a quel punto ho chiesto che fossi io a occuparmi della sceneggiatura. Ne erano state fatte delle altre versioni, ma non mi sembrava rendessero giustizia al libro. Dopo sei mesi ho presentato la mia, che è piaciuta al punto che non mi han chiesto alcun cambiamento, ed è qualcosa che non succede di solito. A quel punto è stato facile raccogliere i fondi necessari e realizzarlo.

James Ivory alla Festa del Cinema di Roma