Baraka Rahmani, da Netflix al Red Sea Film Festival

L'attrice è in concorso con The Alleys, di Bassel Ghandour.

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The Alleys, Baraka Rahmani

E’ una delle star della terza stagione della serie Netflix Slasher e in molti l’avranno vista su Rai Premium, nei panni di Carly, la rockstar con la frangetta della Un milione di piccole cose creata da D.J. Nash, ma Baraka Rahmani è al Red Sea International Film Festival per accompagnare The Alleys di Bassel Ghandour. Un dramma corale che la vede al fianco di Emad Azmi (nel Sergio del 2020, con Ana de Armas) nel ruolo di Lana, giovane giordana innamorata e pronta a lasciare tutto per amore del suo Ali, abituato a vivere di espedienti, anche pericolosi.

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Una storia che si muove nei ‘vicoli’ del titolo, quelli di Jabal Al Natheef, labirintico quartiere di East Amman dove tutti sanno tutto di tutti, ma dove ciascuno nasconde segreti, da tenere al sicuro a ogni costo. Una dinamica tipica di certe realtà, abituate a vivere molto la strada e la comunità, ma che non rende il film tipicamente mediorientale.

“Credo siamo in una nicchia, – dice Baraka Rahmani. – Non molti racconti intercettano questa specifica società, o comunità. Anche stilisticamente The Alleys è forse più un film occidentale, mi fa pensare a Fargo o a Pulp Fiction più che a certi prodotti della regione. Personalmente ero molto eccitata da questo aspetto, ma insieme credo si tratti di una valida rappresentazione di quella parte della città e della nostra cultura. Una cultura da lettori di riviste di gossip, ossessionati da quel che pensa la gente. E qui abbiamo un esempio delle conseguenze di quel che succede quando questa tendenza va fuori controllo”.

Una cultura ancora molto radicata, a ogni livello?
Per me la sottotrama della storia è relativa proprio al processo messo in atto nel passato, che in generale ha portato a un progresso, anche se forse non specificatamente ancora in questa parte della società, o in certe classi. E’ qualcosa di molto radicato nella cultura. Ma c’è un aspetto positivo in questo, visto che il film è proprio sullo squallore dell’abitudine a voler sapere le faccende altrui. Se tutti si fossero occupati dei loro, non succederebbe quel che vediamo nel film. Qui sta l’universalità di quel che vediamo, ogni persona di ogni cultura può relazionarvisi, anche se la speranza è che arrivi un messaggio progressista al nostro mondo, e uno spunto a riflettere su di sé.

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Un film a cavallo di due mondi, insomma, come la sua carriera?
E’ stato bello lavorare con Disney+ e Hulu, in Un milione di piccole cose, è davvero una grande macchina, c’è altissima professionalità e una splendida atmosfera sul set. Come per Netflix, dove ho lavorato nella serie Slasher, che è stata la mia prima vera esperienza in una produzione del genere, top. Ho imparato molto, dal punto di vista tecnico, attoriale, e via dicendo, ma venendo in Giordania ho dovuto buttare tutto fuori dalla finestra. E sono contenta di averlo fatto, perché mi sono sentita molto orgogliosa di parlare arabo in un film per prima volta e con un ruolo importante. Rispetto a certi processi, dove è stato interessante osservare il metodo che hanno i colleghi sul lavoro, qui era tutto diverso. Abbiamo girato qualcosa di molto vero, e in un vero circondario. Per questo abbiamo dovuto seguire la marea. Per la questione dei tempi, o perché quando capita che ci sia un matrimonio rischi di dover ritardare per sei ore a causa della musica. Ma penso sia lo spirito che anima chi fa cinema indie, o a basso budget o culturale. Sono tutti molto coinvolti, uniti, cercano di far risaltare il film a ogni costo e c’è più collaborazione. Che credo sia ciò che ha determinato il successo del nostro film. Sono davvero stata contenta di lavorare nel paese, pur avendo vissuto in Canada per 11 anni, lì è dove sono nata e cresciuta.