LE MANI SULLA CITTÀ

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«In politica l’indignazione morale non serve a niente. L’unico grave peccato sa qual è? Quello di essere sconfitti». A pronunciare queste fondamentali parole è il consigliere Luigi De Angelis, capogruppo del Centro (leggi Democrazia Cristiana), mentre spiega a uno dei suoi uomini che non si deve scandalizzare per il fatto che il corrotto costruttore edile di destra Edoardo Nottola sia passato nelle loro file.

È il momento centrale di Le mani sulla città, che Francesco Rosi ha diretto nel 1963, subito dopo aver affrontato un pezzo di storia italiana con Salvatore Giuliano (1961). In questo caso si passa dalla Sicilia a Napoli per affrontare un endemico caso di intrallazzo politico legato a interessi privati. Il cosceneggiatore della pellicola, lo scrittore Raffaele La Capria, amico di Rosi, raccontò di aver proposto a Rosi di fare un film sul crollo di un palazzo, sulla speculazione immobiliare che in quegli anni del boom economico e della nascita del centrosinistra già cominciava a svilupparsi in modo particolare. «Con Le mani sulla città volevo continuare il discorso politico iniziato con Salvatore Giuliano», ricordò poi Rosi. «Mettere in evidenza le collusioni tra i vari poteri e rendere chiaro come una città fosse regolata da questo intrico di interessi che mescolavano in maniera molto oscura e anche molto chiara la politica con l’economia».

Per fare il film il regista si documenta sul campo, segue il congresso democristiano a Napoli, ascolta un lunghissimo discorso tenuto da Aldo Moro e, soprattutto, è presente a molte sedute del consiglio comunale, dove rimane colpito dagli interventi di Carlo Formariello, della sinistra. Si reca anche al vicolo Sant’Andrea, dove è stata girata la scena del crollo, già semi deserto per gli sfratti in atto e cattura gli umori della gente rimasta. E mentre sta organizzando tutta la materia per trasformarla in un soggetto, si accorge che il caso del crollo che lui e La Capria si sono immaginati e il conseguente sfratto orchestrato per cacciare la gente e costruire nuove case era effettivamente avvenuto proprio in quel vicolo anni prima. Per rendere poi più credibile il linguaggio dei politici studia i verbali delle sedute del consiglio, incontra architetti, imprenditori, urbanisti. E quando gira sul campo, nel vicolo, la realtà si mescola con la finzione.

A parte le comparse che interpretano i muratori, che il regista fa venire da Roma e che in realtà sono degli stuntmen per la pericolosità della scena, la gente che si vede è quella del posto e le reazioni sono quelle, genuine, di una comunità spaventata dal crollo che Rosi realizza utilizzando ben sette macchine da presa. Il capo costruttore della troupe, Carlo Agate, rischia pure la pelle per andare a districare un congegno che si era impigliato. A parte Rod Steiger il cui nome ha contribuito a dare un richiamo internazionale alla pellicola, la scelta degli attori si è divisa fra professionisti noti (il già citato Salvo Randone e Guido Alberti nel ruolo di Maglione, capo della Destra) e non professionisti. Tra questi, nei panni di De Vita, capo della Sinistra, c’è proprio quel Carlo Formariello che aveva così colpito Rosi alle sedute del consiglio.

Un cast perfettamente amalgamato, con le facce giuste e i caratteri ben delineati, che il cinema italiano di oggi non riesce più a mettere insieme. Per far entrare Steiger nel ruolo, evitando i cliché da Actors’ Studio che l’attore avrebbe poi elargito sul set di E venne un uomo di Ermanno Olmi, Rosi lo porta con sé per vicoli e osterie, gli fa conoscere e respirare la città. Un metodo vincente, che per il regista è anche un personale modo per affrontare ogni film. Presentato alla Mostra di Venezia nel 1963, Le mani sulla città vince il Leone d’Oro, anche se nella classifica dell’anno arriva solo al 61° posto con 315 milioni di lire (al primo c’è Il Gattopardo, con circa 4 miliardi e mezzo). Nel tempo il film non ha perso la carica di denuncia, che ai tempi fu criticata, poi per la sorprendente attualità. Non fosse per gli abiti, le auto, gli arredi, che ne fanno inevitabilmente un film in costume, potrebbe trattare una vicenda dei nostri giorni. C’è un momento, durante l’acceso dibattito in consiglio, in cui i componenti della Destra alzano le mani gridando: «Le nostre sono mani pulite». Una vicenda che deve aiutare a riflettere e a non cadere nell’errore di rassegnarsi alla regola di un’indignazione che non porta a nulla. Non per niente la pellicola si chiude con una frase che spesso è stata utilizzata al cinema, con una dovuta correzione: «I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce».