Tra pochi giorni, sabato 10, al Festival di Locarno 2024 verrà presentato – in anteprima, fuori concorso – il documentario La prodigiosa trasformazione della classe operaia in stranieri di Samir Jamal Al Din, un racconto che nasce dalla stessa esperienza del regista svizzero (di origini irachene), al centro di conflitti e trasformazioni sociali che la voce narrante di Lino Musella descrive al pubblico. Attraverso brevi episodi animati, realizzati con la tecnica dei video-giochi, si sviluppa il racconto del massiccio movimento migratorio nell’Europa degli anni ’50 e ’60 verso Francia, Germania, Svizzera, Belgio e gli altri paesi industrializzati che reclutarono milioni di migranti dal Sud, in particolare dal Meridione d’Italia.
Sette milioni di italiani emigrarono in Europa, due dei quali verso la Svizzera. Negli anni ’70 emersero con sempre maggiore evidenza fenomeni razzisti e populisti in quei paesi, a incominciare dalla Svizzera, che divenne un caso esemplare in tutta Europa. Dopo che per anni il Partito Socialista e i sindacati di quel paese avevano plasmato la cultura della classe operaia sulla base di principi di solidarietà, dalla fine degli anni ‘60 tutto questo crollò e anche nei sindacati si diffuse un atteggiamento razzista nei confronti dei lavoratori immigrati, con cui si fanno i conti ancora oggi. Al punto che ormai nessuno parla più di classe operaia. Tutti appartengono alla classe media. Gli altri, gli operai di una volta, sono semplicemente ‘gli stranieri’. Migrante a sua volta nella ex città operaia di Dübendorf, il regista racconta quegli anni e quelle trasformazioni.
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“Dopo aver realizzato alcuni film sul mio paese di origine, l’Iraq, e sulla diaspora della mia famiglia, vorrei tornare ora al mondo in cui vivo, in Svizzera. Da bambino non sapevo che eravamo arrivati in Svizzera come rifugiati politici. Ho appreso solo da adolescente che mio padre, temendo per la sua vita a causa dell’attività politica che svolgeva in Iraq, aveva deciso di trasferirsi con tutta la famiglia nel Paese di origine di mia madre, la Svizzera appunto – inizia così il racconto di Samir, contenuto nelle note di produzione. – Allora c’era un grande senso di comunità nel quartiere e tutto era ben organizzato. È così che sono cresciuto e mai avrei mai potuto immaginare, allora, che questa vecchia e rassicurante cultura operaia un giorno avrebbe cessato di esistere. Questo bel quadro ha cominciato a incrinarsi per me nella seconda metà degli anni Sessanta. Più crescevo, più mi sentivo emarginato. Sempre più spesso mi veniva chiesto: “Da dove vieni veramente? Dove ti senti più a casa? Perché non sei svizzero?”. Era diventata un’ossessione e io mi irritavo sempre di più. Ormai succedeva di continuo che venissi etichettato come “straniero”, come quelli lì, come gli italiani, come gli tschingg (termine dispregiativo con cui venivano chiamati gli italiani nella Svizzera tedesca)”.
La prodigiosa trasformazione della classe operaia, trama
Samir è un regista svizzero figlio di immigrati iracheni arrivati nella Confederazione nei primi anni ’60, quando lui era un bambino. Il 7 giugno 1970, il giorno in cui la cosiddetta iniziativa Schwarzenbach venne respinta per un pugno di voti dagli elettori svizzeri, Samir aveva 15 anni e da 8 viveva nella cittadina operaia di Dübendorf, vicino Zurigo. L’iniziativa referendaria del consigliere nazionale James Schwarzenbach mirava a limitare drasticamente il numero di lavoratori stranieri nel paese e avrebbe condannato all’espulsione forzata centinaia di migliaia di immigrati, per due terzi italiani. Il referendum, a cui all’epoca potevano partecipare solo gli elettori maschi, venne sì bocciato di misura, ma mostrò un paese spaccato e sempre più discriminatorio nei confronti degli immigrati. Samir stesso incominciò a sentire su di sé il peso dei pregiudizi negativi della popolazione autoctona verso gli stranieri.
In effetti dalla fine degli anni ’50 in tutta Europa si era verificato un massiccio movimento migratorio dai paesi mediterranei a quelli centro e nord europei. Milioni di lavoratori del Sud Europa si spostarono nei Paesi più industrializzati in cerca di opportunità di lavoro e di migliori condizioni di vita. Di questi gli italiani erano la grande maggioranza. Perlopiù erano braccianti e contadini. Lasciavano i loro paesi, le loro famiglie, le loro vite segnate dalla miseria e dallo sfruttamento.
La Svizzera è stata il paese europeo che nel secondo dopoguerra ha conosciuto il tasso d’immigrazione più alto del continente, assorbendo quasi la metà dell’emigrazione
italiana del secondo dopoguerra, oltre due milioni di persone su una popolazione svizzera di poco più di 5 milioni di persone. Ancora oggi, quella in Svizzera è la terza comunità italiana nel mondo. Concepita come immigrazione temporanea, dopo qualche decennio divenne stanziale e contribuì in modo rilevantissimo alla crescita dell’economia elvetica e alla creazione della ricchezza del paese. Ma ebbe una grande influenza nel paese anche sul piano culturale e sociale. Questa indubbia influenza è stata riconosciuta solo tardivamente, dopo anni in cui le condizioni dei lavoratori italiani in Svizzera (come peraltro negli altri paesi europei di approdo) erano state molto dure, fonte di enormi disagi, di sofferenze e di discriminazioni. Mentre paradossalmente erano gli immigrati che costruivano le case per un paese ormai prospero, loro erano in genere costretti a vivere nelle baracche o in abitazioni cadenti e malsane. Centinaia di migliaia di persone si videro negare il ricongiungimento familiare in nome dello “statuto dei migranti stagionali”, per cui molti genitori tenevano nascosti i loro figli, costretti a non farsi vedere e ad essere sempre allerta.
Le condizioni di lavoro erano dure e qualsiasi sbaglio veniva punito anche con la cacciata dal paese. Il mondo della politica guardava con indifferenza ai problemi dei migranti e per una parte soffiava sul fuoco dei sentimenti xenofobi e razzisti. Gli immigrati stavano fuori dalla società, discriminati e senza diritti. Nell’opinione comune erano dileggiati: italiano era sinonimo di delinquente o di zoticone. I partiti della sinistra istituzionale e gli stessi sindacati mantennero anch’essi una posizione ambigua nei confronti dell’iniziativa Schwarzenbach. Mentre in precedenza, e per oltre 100 anni, la cultura operaia svizzera si era fondata sulla solidarietà di classe e sulla spinta dei sindacati e delle organizzazioni politiche, a incominciare dal Partito socialdemocratico, negli anni ’70 questa cultura collassò in un breve lasso di tempo. L’idea di lottare per obiettivi comuni divenne obsoleta e venne un periodo di de- politicizzazione e di xenofobia per gran parte della popolazione svizzera.
Il film documentario La prodigiosa trasformazione della classe operaia in stranieri racconta queste vicende, che alle volte hanno anche tinte epiche, per il coraggio di chi le dovette subire ma anche per le dimensioni del fenomeno e per l’incidenza che ha avuto della storia della Svizzera. E dell’Italia, dobbiamo aggiungere, il paese che più di ogni altro si confrontò con massici esodi di popolazione prima dal Sud al Nord del paese e poi in Francia, Belgio, Germania e, appunto, soprattutto in Svizzera, un paese che è diventato il simbolo di questi grandi movimenti di popolazione, dagli anni ’50 a tutti gli anni ’70.
Il film si sviluppa a partire dall’esperienza del regista, che ha vissuto personalmente questi conflitti e queste trasformazioni sociali. La narrazione parte dai primi anni ’60 e viene raccontata attraverso brevi episodi animati, realizzati con la tecnica dei video-giochi, in cui sono condensati episodi di vita del regista dalla sua infanzia in un ambiente operaio degli anni ’60: la vita di un bambino migrante in un sobborgo operaio di Zurigo, l’adolescenza come attivista nel movimento sindacale di sinistra fino agli anni ’70, l’amicizia con tanti italiani immigrati, la rappresentazione del crollo delle vecchie industrie e dei loro sindacati. Queste vicende personali si intrecciamo con la ‘Grande Storia’, quella che mostra l’incidenza di questi fenomeni nella società e nella cultura dei paesi che ne furono più toccati, e in tutta Europa. Questa storia viene raccontata con i materiali filmati istituzionali dell’epoca, notiziari e programmi televisivi di uno e l’altro paese. Poi con i racconti diretti e le testimonianze degli immigrati di allora, con un’ampia selezione di preziosi archivi filmati e fotografici, oltre che con estratti di film lungometraggi dell’epoca che entrano nel merito di questo fenomeno. Oggi sembra che nessuno parli più di classe operaia, men che meno i partiti della sinistra storica. Naturalmente, nelle nostre società informatizzate e automatizzate, ci sono ancora persone che fanno lavori fisicamente faticosi e pesanti. Ma il termine “operaio” è stato sostituito nei fatti, nel linguaggio corrente e nella percezione della gente, dalla parola “straniero”. Perché un quarto delle persone che vivono in Svizzera, quelli che fanno i lavori più sporchi e sottopagati, viene da altri paesi, paesi extraeuropei, ormai. La maggior parte dei cittadini svizzeri – ma lo stesso avviene ormai in tutti i paesi europei, anche quelli che fino a qualche tempo fa erano al centro di grandi flussi di emigrazione, come l’Italia – ora considera “normale” che ci siano “stranieri” che, a differenza degli “svizzeri”, fanno i lavori di fatica senza godere dei diritti civili. Non importa per quanto tempo vivono da noi, non importa se lavorano e pagano le tasse nei nostri paesi, e neppure se vi sono nati: sono altro, non appartengono allo Stato democratico.