Storia della Mostra del Cinema di Venezia. Gli anni 1998-2009

Nel primo decennio dei Duemila una Mostra del Cinema in cambiamento affronta i grandi drammi del momento (terrorismo, guerre, crisi economica) e si apre a ulteriori novità.

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La Mostra di Venezia si affaccia al nuovo millennio con la riforma del 1998, che trasforma la Biennale in un soggetto giuridico di diritto privato, di cui il Ministero dei beni e attività culturali nomina il presidente: il primo del nuovo corso è Paolo Baratta, che resterà alla guida dell’istituzione fino al 2001 e poi dal 2008 al 2019. E, dopo l’ultima edizione a cura di Felice Laudadio (dove abbiamo, tra le altre cose, Salvate il soldato Ryan in apertura e una nutrita schiera di divi, tra cui Catherine Deneuve, Coppa Volpi di quest’anno per Place Vendôme), inizia per la Mostra l’epoca dei direttori Alberto Barbera (dal 1999 al 2001 e poi dal 2012) e Marco Müller (dal 2004 al 2011).

A loro, scrive Gian Piero Brunetta nel suo libro sulla storia della manifestazione, «spetta il compito e la responsabilità di traghettare la Mostra nella nuova dimensione del cinema digitale, di interpretare, con giusto tempismo, i mutamenti del mercato, dei modi di produzione e dei comportamenti del pubblico. E di intercettare il futuro senza rinunciare a far rivivere la memoria ultracentenaria del cinema».

Per il suo primo mandato, Barbera, già co-fondatore e direttore del Festival Cinema Giovani di Torino (poi Torino Film Festival), intraprende una riorganizzazione dell’iniziativa, con l’aggiunta di nuovi ingressi e nuovi spazi (come la ristrutturata Sala Perla), che migliorano la fruizione di un evento il cui pubblico è in crescita. E se il 1999 è segnato dall’apertura dell’ultimo, conturbante capolavoro di Stanley Kubrick Eyes Wide Shut (in un’edizione rimasta impressa per i diversi titoli che trattano in maniera esplicita la sessualità), il 2000 è l’anno del “risarcimento” a Clint Eastwood, prima sottovalutato dall’allora direttore Gillo Pontecorvo (che aveva scartato Gli spietati e I ponti di Madison County) e ora celebrato col riconoscimento alla carriera e la proiezione di Space Cowboys.

Il Leone d’oro di quest’anno va invece a Il cerchio, dell’iraniano dissidente (oggi in carcere) Jafar Panahi. Ma è significativa anche la presenza di Memento, acclamata opera seconda di Christopher Nolan, che apre una felice tradizione di film statunitensi di qualità e fuori dagli schemi lanciati con successo dal Lido nel nuovo secolo: tra gli altri, Lontano dal Paradiso di Todd Haynes (2002), Lost in Translation di Sofia Coppola (2003), I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee e The Wrestler di Darren Aronofsky, questi ultimi due Leone d’oro rispettivamente nel 2005 e nel 2008.

Dopo la parentesi dello svizzero Moritz de Hadeln (direttore della Mostra nel biennio 2002-2003), è quindi Marco Müller a guidare la Mostra nel prosieguo del primo decennio dei Duemila. Affrontando, tra le altre cose, le conseguenze dell’allarme terrorismo, con un’edizione 2005 per la prima volta blindata (a seguito degli attentati in città come Londra e Madrid) con poliziotti e carabinieri armati, metal detector e persino cecchini appostati sul tetto del Palazzo del Casinò.

Non mancano di far sentire i loro effetti sul Festival anche le guerre vecchie e nuove in Medio-Oriente e la crisi economica del 2008. L’invasione americana dell’Iraq sarà al centro di diversi titoli presentati al Lido, come il Leone d’argento Redacted  di Brian De Palma (2007) e il futuro premio Oscar The Hurt Locker di Kathryn Bigelow (2008), mentre all’interno di un carro armato israeliano si svolge Lebanon di Samuel Maoz, Leone d’oro 2009.

Proprio in quell’anno, i tagli del Governo Berlusconi al Fondo Unico per lo Spettacolo suscitano la protesta del mondo del cinema italiano e vedono coinvolte anche la Biennale e la Mostra del Cinema, che perdono finanziamenti per 2 milioni di euro. Ma Venezia, intanto, continua (anche) a coltivare luoghi per scoperte all’insegna della libertà creativa: nel 2004 nascono le Giornate degli Autori, in accordo con l’ANAC e l’Associazione dei produttori indipendenti API, che gestiscono in autonomia il nuovo spazio, mentre Orizzonti (aperta ai documentari e dotata di una sua giuria per l’assegnazione dei premi) «è destinata», scrive Brunetta, «a rivelarsi in assoluto la sezione più vivace, innovativa e coraggiosa pensata in un festival internazionale all’inizio del nuovo millennio».

Tra le cinematografie che continuano a godere di ottima salute e notevole consenso al Lido c’è quella dell’Estremo Oriente, e in particolare la cinese, con ben tre Leoni d’oro in questi anni: Non uno di meno di Zhang Yimou (1999), Still Life di Jia Zhangke (2006, anno peraltro segnato da David Lynch e dal suo INLAND EMPIRE) e Lussuria di Ang Lee (2007). Dalla Corea del Sud emerge invece il talento di Kim Ki-duk (Premio Speciale nel 2004 con Ferro 3 – La casa vuota), destinato a ulteriore gloria a Venezia nel decennio successivo, prima della tragica morte nel 2020 per Covid.

Altalenanti invece le sorti del nostro cinema al Lido in questi anni: a volte immeritatamente escluso dal palmarès (Buongiorno, notte di Marco Bellocchio nel 2003), che altre volte per contrasto alcuni considerano sin troppo generoso (la doppia Coppa Volpi a Luce dei miei occhi di Giuseppe Piccioni nel 2001). I film nazionali possono essere bersaglio di fischi e derisione (Ovunque sei di Michele Placido e I giorni dell’abbandono di Roberto Faenza), ma anche venire acclamati e premiati senza polemiche, come nel caso di Nuovomondo di Emanuele Crialese (Leone d’argento 2006) e della performance di Silvio Orlando ne Il papà di Giovanna di Pupi Avati (Coppa Volpi 2008). Contraddizioni di un decennio che si chiude col primo lungometraggio italiano ad aprire in concorso il Festival, Baarìa di Giuseppe Tornatore.