ADDIO A GIUSEPPE FERRARA, IL REGISTA SCOMODO

0

Era un regista scomodo, Giuseppe Ferrara, uno che metteva le mani dove la maggior parte dei colleghi non osa e che ha sempre visto il cinema come uno strumento d’inchiesta sui casi più controversi della storia italiana, raccontando mafia, corruzione, collusioni viziate tra criminalità, finanza e politica. Scavando nei fatti, non occultando nulla, ma con grande forza drammaturgica anche nella ricostruzione degli eventi. Fra i suoi film forse il più famoso è Il caso Moro (1986) con un somigliantissimo Gian Maria Volonté premiato al Festival di Berlino, e poi Cento giorni a Palermo, sul tragico breve mandato da Prefetto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa prima di essere ucciso dalla mafia, Giovanni Falcone interpretato da Michele Placido, I banchieri di Dio sul Banco Ambrosiano e la mai chiarita morte del banchiere Roberto Calvi.

Ferrara aveva 83 anni ed è morto malato e in povertà: nel 2013 il mondo del cinema italiano aveva chiesto per lui l’applicazione della legge Bacchelli, il sostegno economico agli artisti in difficoltà, anche perché il regista, già in gravi condizioni di salute, aveva ricevuto lo sfratto dal suo appartamento di Roma. Era nato a Castelfiorentino, Firenze, il 15 luglio del 1932. Dopo la laurea in Lettere con una tesi sul “Nuovo Cinema Italiano”, Ferrara si era diplomato in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia, iniziando subito a occuparsi di un documentario sulla Resistenza in Toscana.

Nel 1969 il suo impegno civile si esprime anche nella produzione: fonda la cooperativa “Cine 2000” per promuovere opere bloccate dai condizionamenti dell’industria e del “potere”. Il suo primo lungometraggio Il sasso in bocca, dello stesso anno, sarà già un atto di denuncia contro gli intrecci tra mafia e politica. Ferrara ha lavorato anche in tv, negli anni ’80, con P2 Story, inchiesta sulla loggia massonica guidata da Licio Gelli. Di Ferrara rimane anche un inedito: è il documentario Roma nuda, del 2013, su Franco Califano.