Il Festival di Cannes? Un vero museo

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Incerto tra ricerca dell’originalità e conservazione, invasione dell’ultracorpo Netflix e celebrazione della sala, autorialità estrema, spesso troppo sottolineata, serialità, realtà virtuale e cinema di genere, il Festival di Cannes, in occasione del settantesimo compleanno, alla fine è sembrato recuperare il Museo come nuovo luogo narrativo. Forse una chimera, forse il destino del cinema. Sta di fatto che nel Concorso ufficiale protagonisti e storie si sono mossi con frequenza tra le sale d’esposizione.

Ben due gli scultori protagonisti, entrambi tormentati benché di diverso calibro artistico, il monumentale Rodin nel film di Jacques Doillon che porta il suo nome e il più contemporaneo Dustin Hoffman in The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach. La camera delle meraviglie in Wonderstuck di Todd Haynes si trova nel cuore dei mirabolanti diorama del Museo di scienze naturali di New York, che nel film diventa la casa del piccolo Jamie in fuga. Gli incubi e le immaginazioni choc della protagonista di L’amant double di Ozon prendono forma tra le installazioni digitali e le sculture organiche del Museo parigino di cui è la custode-sorvegliante. Infine, uno dei migliori film in competizione, The Square dello svedese Rubén Ostlund, racconta in modo incongruo, affascinante e ridicolmente funny, le peripezie alla Tati del conservatore di un Museo d’arte contemporanea.

La trama, scrive Le Film Francais, è talvolta difficile da decodificare quanto le creazioni esposte nelle gallerie e che sono il décor principale del film. Di sicuro a fronte del mutare rapido e irresistibile del panorama audiovisivo, tra vecchi format e nuove piattaforme, il Museo, nelle sue varie declinazioni, appare agli autori come un approdo rassicurante, un punto fermo capace tuttavia di generare continua meraviglia.

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