STEPHEN DALDRY RACCONTA “TRASH”, FAVOLA TRA LE DISCARICHE

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Da Stephen Daldry, ormai, ci aspettiamo solo successi: dopo Billy Elliot, il film culto che l’ha lanciato, il regista britannico girato The Hours e The Reader, due film che sono valsi l’Oscar alle attrici protagoniste – rispettivamente Nicole Kidman e Kate Winslet. Ora Daldry torna sul grande schermo con la favola di Trash: un’isola del tesoro ambientata in una favela dove al posto dei cattivi c’è la polizia e il tesoro non consiste in oro e gioielli, ma nella scoperta della corruzione dilagante nel Paese e nella sua sconfitta. La sezione autonoma del Festival di Roma Alice nella città ha organizzato un incontro con il regista moderato dal direttore Piera Detassis e dalla regista Costanza Quatriglio, abituata anche lei a lavorare con i ragazzi.

Daldry sta già lavorando a una nuova serie tv che sarà prodotta da Netflix, The Crown, sul potere dei reali. E confessa di non avere una particolare passione per la narrazione per ragazzi: «Sono state delle coincidenze che mi hanno portato a fare prima Billy Elliot e ora Trash. Poi alcuni critici dicono una cosa altri ne sostengono un’altra. Secondo alcuni la mia vera specialità è far morire le mie attrici protagoniste! » Anche se poi, come nota Detassis, fa vincere loro l’Oscar. «Forse l’hanno vinto proprio perché morivano! » risponde il regista. Già dalle prime battute si intuisce il carattere ironico e l’umiltà di quest’uomo che riesce a mettere nella stessa pellicola favola e realtà, anzi le unisce in modo tale da trasformare la realtà in favola e la favola in realtà. Il grande rischio che corre Trash è proprio di apparire poco credibile a un pubblico cinico come quello occidentale soprattutto per il finale, nel quale i tre bambini delle favelas sconfiggono la corruzione che dilaga nel sistema politico brasiliano e negli apparati dello stato. «Trash è una favola! Certo che non credo che nella realtà questo potrebbe accadere », risponde Daldry quando gli si chiede il suo parere sul finale. «Il punto, però, è che quei bambini, i protagonisti del film e le persone, le comunità che vivono nelle favelas ci credono. Per loro non è inverosimile che il bene possa vincere, che la giustizia morale possa trionfare, che un dio esista. Anche se le forze in campo sono impari questo per loro non vuol dire che a vincere sarà sempre il più forte . Trash non è un film di denuncia sociale, però spero che aiuti a combattere il pregiudizio per cui se vivi in una discarica la tua vita è una discarica, se sei povero non puoi essere felice. Se noi occidentali non riusciamo a crederci non vuol dire che il lieto fine non esista, anche se sei povero e vivi in una discarica. Io sono partito dal libro di Andy Mulligan per girare Trash, ma più andavo avanti con le riprese più mi allontanavo dal testo e dal copione per farmi guidare dai bambini, dal loro entusiasmo, dal loro ottimismo, dalla loro speranza, in una parola dalla loro fede nella vita. C’è un momento nel film in cui parlano del futuro, dei loro sogni, del loro Paese ed esprimono la speranza in un futuro migliore che per loro è possibile. A un occidentale possono sembrare cose ingenue, idee da bambini, ma forse questo vuol dire che siamo noi occidentali a essere vecchi ».

La scelta stessa di ambientare il film non nelle Filippine come nel libro di Mulligan dal quale la pellicola è tratta, ma in Brasile, deriva dall’entusiasmo che Daldry e la sua troupe hanno trovato lì. Le difficoltà però non sono mancate: mentre il regista racconta delle riprese si capisce che ci dev’essere voluta tutta la sua pazienza, il suo ottimismo e il suo rispetto per coloro con cui lavora – che siano bambini o adulti, brasiliani o americani, attori professionisti o non – per portare a casa il risultato. «Questi bambini vivono in dei contesti molto diversi dai nostri: la prima cosa che manca non è tanto la pulizia quanto l’ordine, il senso di routine. La cosa più difficile è stata fargli capire che c’erano degli orari, delle scadenze. A volte arrivavano sul set che erano stanchi perché la sera prima avevano fatto tardi o avevano giocato troppo altre volte non arrivavano per nulla. È stato necessario costruire un rapporto di fiducia solo così siamo riusciti a lavorare, seppure in una maniera del tutto atipica rispetto a quella cui sono abituato. Ho cercato di seguire i bambini, di far sì che fossero loro a indicarmi la strada. E questo è quello che è successo » Se la strada dell’entusiasmo possa entusiasmare il pubblico occidentale, se la fiducia che questi bambini hanno possa dare fiducia ai cinici abitanti del – non a caso – Vecchio Continente, questo è tutto da dirsi.

Sicuramente merita la massima stima un regista che pur sapendo distinguere la realtà dalla favola sa anche riconosceere che oltre al proprio punto di vista c’è quello degli altri, e che non necessariamente il proprio punto di vista debba essere il migliore. «Sono un uomo istintivo, mi faccio guidare da quello che sento e in questo caso sentivo che tutto quello che dovevo fare era creare un set dove i ragazzi potessero esprimersi su ciò che interessava loro ».

Flaminia Chizzola