«Non credo che quando un regista inizia a lavorare ad un progetto porti dentro di sé l’idea di voler inviare un messaggio. Però sì, per una serie di coincidenze, Adagio contiene l’unico messaggio di speranza presente nella mia cinematografia, per quello lo definisco un noir sentimentale». Così Stefano Sollima racconta a Ciak il suo ‘film più intimista’ Adagio, scritto insieme a Stefano Bises a compimento della trilogia criminale romana avviata con Romanzo criminale e proseguita con Suburra. «Con Stefano siamo partiti dal racconto di una fine di un’era, quella dei tre criminali sul viale del tramonto, e da lì abbiamo innestato in sceneggiatura un racconto padre-figlio. Il messaggio di speranza non era cercato all’inizio, è stata una conseguenza dell’evoluzione del racconto. Però c’è e sono contento che venga letto così».
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In assenza delle donne
Contrariamente a Romanzo criminale e Suburra, in Adagio non passa inosservata la (quasi) totale assenza di personaggi femminili all’interno del racconto, una scelta spiegata così da Sollima: «anche quella è stata una conseguenza dello sviluppo drammaturgico. Nel momento in cui scegli il rapporto padre-figlio per raccontare questi uomini, diventa più semplice e più efficace lavorare sull’assenza di figure femminili di riferimento. Funziona meglio». «Funziona di più perché così sbagliano» aggiunge Favino «sono da soli, se avessero qualcuno al loro fianco e un altro modo di vedere la realtà, probabilmente non farebbero quegli errori».
Le maschere di Favino
Non nuovo all’uso massiccio di trucco prostetico per dar vita ai suoi personaggi, Favino ci spiega così i pro e contro di tale meccanismo, in questo caso applicato al ruolo di Romeo/Cammello. «Su un lavoro che prevede già sulla pagina l’adesione a una serie di condizioni scritte, come l’essere una persona mangiata da un male e che fa chemioterapia, quella cosa ti avvicina di più ad una possibile idea di fisicità che hai costruito nella tua mente. Quindi piano piano, durante quelle quattro ore di trucco, la vedi emergere, ogni singolo dettaglio costruisce quella vicinanza che tutti insieme abbiamo costruito».
E aggiunge: «Quello che ti toglie è forse un po’ di espressività, ma guadagni una cosa più bella: non sei più vittima di una cosa abbastanza fatale come la tua faccia, il tuo soma. Tutti noi, essendo guardati, abbiamo la tentazione di voler mettere a disposizione la parte migliore di noi. E’ un trucco che facciamo a noi stessi, mostrare la propria maschera sociale, i piccoli vezzi, le paure di non essere all’altezza. Quando sei coperto sai che quella cosa non c’è e non viene vista. Siamo vittime di una cultura che ha la sua estetica. [Con le protesi e il trucco] c’è una sorta di libertà, non siamo schiavi di quella paura, che secondo me anche l’attore più rigoroso un po’ se la porta dietro».