Beau ha paura, la recensione del nuovo incubo di Ari Aster

Il regista di Hereditary e Midsommar ci trascina nel delirio di Joaquin Phoenix

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Beau ha paura

Beau ha paura è già stato presentato come “sfrenato“, “divertente e scatenato“, “un’odissea folle, carica di immaginazione e humor nero“, ma il nuovo film di Ari Aster – presentato da I Wonder Pictures, prodotto da A24 e al cinema dal 27 aprile – è un viaggio difficilmente inquadrabile in una o più di queste definizioni, che rischiano di restare riduttive e/o fuorvianti. Di certo “sorprendente” e a suo modo “audace” quella interpretata da Joaquin Phoenix è una storia che potrebbe dividere il pubblico, soprattutto considerate le aspettative dopo i due precedenti del filmmaker (già inserito tra gli autori di culto) e i diversi livelli o temi che tocca il delirio vissuto dal protagonista.

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IL FATTO:

Il pavido Beau, introverso e facile preda di ansie e ossessioni, si appresta a mettersi in viaggio per far visita a sua madre ma, alla vigilia della partenza, intorno a lui esplode il caos. Per arrivare a destinazione in un mondo completamente impazzito, Beau dovrà percorrere strade che non si trovano su nessuna mappa e sarà costretto ad affrontare tutte le paure e le bugie di una vita.

Beau ha paura

L’OPINIONE:

Al pari del termine “capolavoro“, negli ultimi anni si tende a utilizzare – spesso a sproposito o con leggerezza – l’appellativo di “visionario“, ma certo va riconosciuto ad Ari Aster di aver saputo tradurre l’inquietudine del suo natural horror e un certo disagio insito nei rapporti, sociali e familiari, in un’opera comunque complessa, pur se non del tutto convincente. Che avrebbe potuto meritare qualche voto in più per la ricchezza messa in scena, come qualcosa in meno per certe semplificazioni o incompiutezze di troppo, ma che merita senza dubbio la sufficienza per la resistenza del suo protagonista e per lo spessore dei suoi comprimari (o sparring partner), da Nathan Lane e Amy Ryan a Parker Posey e Patti LuPone, oltre alla giovane Kylie Rogers di Yellowstone.
Il potente e surreale incipit, che non dirime il dubbio tra una drammatica distopia o l’agghiacciante filtro attraverso il quale il povero Beau vive la sua vita, è il perfetto esempio dello humor nero scelto per raccontare una sorta di tormento esistenziale On the Road che cambia continuamente direzione nel suo percorso catartico. Un viaggio di Capitan Fracassa(to) che vede lo strano eroe-vittima di Phoenix sovrastato da pazzi che lo minacciano e gli piangono letteralmente addosso, e poi accoltellato, investito, accolto, accudito, rassicurato, accusato e terrorizzato. La sua è una vita affrontata con la paura e la certezza di fare sempre la cosa sbagliata, con una passività che non gli impedisce di sognare una famiglia (e nuovi drammi) e un senso di colpa che lo immobilizza. Come reso molto esplicitamente dai ricorrenti black out di Beau, ma anche dalla durata del film, il tempo è relativo e la dilatazione uno strumento come altri per portarci a vivere il suo senso di inadeguatezza e vulnerabilità. Tecniche che Aster apprezza e sfrutta, anche se certi eccessi – pur utili ad aprire porte – fiaccano la sopportazione, col rischio di non avere la forza per seguire le nuove svolte o di esser troppo travolti dal caos, per definizione (volutamente?) non sistematizzabile per quanto non fine a se stesso.
Tutto questo rende innocente il figlio prediletto? Attenzione a darlo per scontato. O ad aspettarsi una conclusione che dia senso alla lunga attesa e alla altrettanto infinita ricerca di una casa, un nido, una famiglia. Mai completamente rassicurante, che sia la propria o altrui, almeno nella visione dell’autore statunitense, che immaginiamo come il Dio della blasphemous rumors dei Depeche Mode, a osservare gli spettatori mentre sciamano fuori dalla sala, dopo un ‘non’ colpo di scena finale, un’apparizione più insensata che incomprensibile e sui titoli di coda.

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Sicuramente i due film precedenti del regista newyorkese (già al lavoro sul prossimo Acting Class), quello d’esordio, Hereditary – Le radici del male, presentato al Sundance nel 2018, e il Midsommar – Il villaggio dei dannati, inserito fra i 10 migliori film indipendenti del 2019, anche se – per motivi diversi – potrebbe essere interessante far seguire al lungo delirio che vi attende in sala un recupero del The Truman Show di Peter Weir e del Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo del professionista del surreale Terry Gilliam. Come anche del La casa di Jack in cui Lars von Trier portò all’Inferno Matt Dillon.

 

RASSEGNA PANORAMICA
VOTO
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