Avevamo lasciato M. Night Shyamalan sulla splendida e inquietante spiaggia dominicana di Old, e lo ritroviamo nei boschi del New Jersey, forse meno affascinanti, eppure teatro di un nuovo adattamento ugualmente da brividi, quello del La casa alla fine del mondo di Paul G. Tremblay. Il Bussano alla porta che dal 2 febbraio è in uscita nelle sale di tutta Italia (distribuito da Universal Pictures) è un’occasione da non perdere per gli appassionati del cinema del regista indiano naturalizzato statunitense, o per riconciliarsi con lui dopo la Unbreakable trilogy, e perché no ritrovare alcuni dei temi già trattati nella sua vasta e varia filmografia, magari declinati in maniera diversa.
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IL FATTO
Mentre sono in vacanza in uno chalet isolato, Andrew, Eric e la loro figlia adottiva Wen vengono raggiunti da quattro sconosciuti arrivati dal bosco. Li guida Leonard (Dave Bautista), un roccioso impiegato delle poste degli Stati Uniti, che costringe la coppia ad ascoltarlo, con le buone o con le cattive. Ostaggi degli indesiderati ospiti, armati e minacciosi, i due uomini vengono posti di fronte a una scelta inaccettabile: decidere chi di loro tre dovrà morire. Se non sceglieranno chi sacrificare, l’umanità è destinata all’apocalisse… e già le prime avvisaglie di una possibile fine del mondo sembrano palesarsi.
L’OPINIONE
Una indubbia qualità di M. Night Shyamalan è quella di saper restare in contatto con il più comune sentire del pubblico, nei suoi film e nelle sue dichiarazioni non si percepisce mai un distacco, una superiorità, anzi, nel creare le sue ansiogene messe in scena sono le sue stesse ossessioni o paranoie quelle che emergono nella trattazione dei loro aspetti più universali. Bene o male che riesca a portarle sullo schermo. E questo accade anche in Bussano alla porta, dove le riflessioni condivise nell’incontro di Roma che vi abbiamo raccontato accompagnano l’ampia pletora di temi intrecciati con l’evolversi del film. Che meno di altre volte gioca con il rovesciamento e la sorpresa – cosa che forse deluderà le aspettative dei più attratti dal colpo di teatro, o dal ‘Prestigio’ (per citare un altro grande film) – ma come nelle sue migliori prove chiama direttamente in causa noi spettatori. Di nuovo, infatti, l’orrore è raccontato, costruito sulla fede – non necessariamente religiosa (per quanto sia uno degli elementi in gioco) – e sulla possibilità che tutto sia parte di un piano più grande di noi, ma non può essere casuale che in un film in cui tutto ruota intorno allo scegliere, anche chi guarda sia chiamato a operare una scelta: fondamentalmente, se credere o no alla storia che vediamo. E a sostituirci alle tre vittime di turno, più che a empatizzare o immedesimarci, due delle quali compongono una coppia gay, in questo caso perfettamente funzionale alla narrazione e non figlia di un calcolo produttivo in cerca di plausi o ‘quote’ di pubblico. Un merito della sceneggiatura di Steve Desmond e Michael Sherman, che giaceva nella famosa Black List, al quale si unisce la felice intuizione del regista di svilupparla in un contesto – solo fisicamente limitato – che sognava dai tempi di The Visit (quando progettava di continuare a sfruttare i sobborghi della Pennsylvania) e con strumenti di altri tempi (dagli obiettivi Panavision Primo Anamorphic del 1989 a treppiedi, dolly o gru piuttosto che la Steadycam). E come nel troppo sottovalutato E venne il giorno, è di nuovo centrale la responsabilità dell’uomo (più o meno diretta) nel determinare la propria fine. Coincidenze? Forse. Il dubbio è legittimo, e rinfocolato continuamente, tra visioni e servizi televisivi che rimandano alle piaghe bibliche. Ma se sia tutto parte di una Apocalisse annunciata o minacciata sarete voi a deciderlo, quello che importa al nostro è che il monito arrivi a più persone possibile, che resti nella memoria, che faccia rivalutare il concetto di sacrificio – troppo spesso dato per scontato – e quello che comporta, perché il futuro continui a contenere un briciolo di speranza, per riscoprire quello che anche Shyamalan fatica a definire ottimismo.
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Tra i titoli già citati, è impossibile non ribadire la connessione con il E venne il giorno (The Happening) del 2008, quando ancora la crisi climatica sembrava risolvibile, ma varrebbe la pena di recuperare anche il The Village del 2004, per rivivere quella sensazione di isolamento cognitivo su cui molta della tensione viene creata. E se volete vedere un’altra Apocalisse, diversa dal solito e raccontata da un altro punto di vista, vi consigliamo di aggiungere alla lista il Silent Night di Camille Griffin, con Keira Knightley.