Pablo Trincia al Noir in Festival: «Il racconto è una forma di giustizia sociale»

Il giornalista e podcaster ospite del Noir in Festival 34 ha raccontato il suo ultimo lavoro E poi il silenzio – Il disastro di Rigopiano e la genesi delle storie di cronaca raccontate in altri suoi podcast di successo

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Pablo Trincia

«Mi devo innamorare di una storia, devo entrare per un attimo mentalmente in quegli ambienti, guardarmi intorno, sentire se c’è qualcosa che mi interessa, devo trovare qualcosa di me, e soprattutto trovare la domanda alla quale voglio rispondere», così il giornalista Pablo Trincia agli studenti dello IULM di Milano, nell’ambito del Noir in Festival 34, ha spiegato la genesi delle sue storie raccontate in podcast appassionanti e di successo, come Dove nessuno guarda – Il caso Elisa Claps, e il nuovo podcast realizzato da Chora Media e anche docuserie originale Sky Italia E poi il silenzio – Il disastro di Rigopiano, che ricostruisce, attraverso testimonianze inedite, il dramma e le storie umane dietro la tragedia dell’Hotel Rigopiano, travolto da una valanga nel 2017.

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Insieme all’autore anche Debora Campanella, co-autrice del podcast, e Omar Schillaci, vice direttore di Sky Tg24 che dal 20 novembre trasmette l’omonima docu-serie in 5 puntate. Un incontro che arriva proprio il giorno seguente la decisione della Cassazione di un processo bis ai sei dirigenti del Servizio di Protezione civile della Regione Abruzzo che erano stati assolti nei primi due gradi di giudizio. Confermata la condanna per l’ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo, inflitta nel processo d’appello: un anno e 8 mesi per rifiuto di atti d’ufficio e falso.

«Non pensiamo che il nostro podcast abbiamo influito sulla decisione dei giudici, però mi piace pensarlo», ha confessato Pablo Trincia. Un’inchiesta quella di E poi il silenzio, o come quello su Elisa Claps, raccontata seguendo uno schema “cinematografico”, diviso in scene, con un narratore, lo stesso Pablo Trincia che entra nella storia con delicatezza, quasi per non “disturbare” i protagonisti.

C’è un film in particolare che ti ha ispirato nell’impostazione dei tuoi podcast?

Più che altro un libro, A sangue freddo di Truman Capote, e i podcast che ho ascoltato a partire dal 2014, quindi Serial, Radiolab, Dirty John, ci sono davvero tanti podcast narrativi molto belli. E poi del cinema mi ha ispirato il concetto, l’idea, la divisione in scene, le strutture, però non mi viene in mente un film in particolare, forse una serie, Breaking Bad, per la sua struttura: prologo, sigla, corpo puntata, e finale che richiama l’episodio dopo, una struttura classica, ma in Breaking Bad mi è piaciuta particolarmente.

Nel finale di E poi il silenzio esprimi il desiderio di poter tornare indietro nel tempo, per cambiare il corso degli eventi e salvare tutti. Che carico emotivo ti porti dietro dopo aver indagato e raccontato queste storie, dopo aver conosciuto i superstiti, i familiari?

Il finale mi è venuto da un romanzo di Stephen King che stavo leggendo, 22/11/63, è proprio l’idea di tornare indietro nel tempo e cambiare il corso degli eventi, è il pensiero dominante quando si raccontano queste storie. Te le porti dietro, ti lasciano anche un po’ di malinconia, di malessere a volte, ma poi succedono anche cose belle, i testimoni e i protagonisti che ti ringraziano, che sono contenti, sono storie molto forti che ti restano dentro, non sono proprio di passaggio.

Quanto è difficile non scadere nel morboso? La cronaca di questi giorni che ha visto la condanna di due uomini per due femminicidi ci ha mostrato un’attenzione eccessiva verso i carnefici e le loro reazioni…

È facile non scadere nel morboso, basta non soffermarsi sui dettagli della cosa in sé, ma chiedersi cosa quella storia, quell’episodio, quella tragedia o quell’omicidio raccontano, bisogna cercare di vedere le cose più dall’alto, bisogna cercare di avere una visione più a 360°, è così che non sei morboso. Se inizi a chiederti che cosa racconta quella vicenda, quali sono i problemi più ampi, le questioni da risolvere lì non sei più morboso, ma cerchi di portare anche un arricchimento, una riflessione. Se c’è una riflessione tendenzialmente non c’è morbosità secondo me, la morbosità è solo quando sei lì a voler raccontare solo il sangue sui muri, e quindi quando vuoi solo impressionare, far piangere, indignare ma non vuoi fare ragionare.

I podcast, le docuserie d’inchiesta possono secondo te cambiare qualcosa sul piano giudiziario?

Quello è difficile che accada, ma ci tengo a sottolineare quanto il racconto sia una forma di giustizia sociale, perché restituisce memoria e dignità alle vittime, come è successo con Elisa Claps, il nostro podcast in questo senso ha fatto davvero bene alla sua famiglia.