Flaminia, l’esordio alla regia di Michela Giraud: «Ho rischiato tutto»

L'opera prima della stand-up comedian, di cui è anche sceneggiatrice e interprete, è un dramedy che tocca temi delicati come diversità e inclusione. Dall'11 aprile al cinema.

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Flaminia

Flaminia è una giovane donna ambiziosa, prossima al matrimonio. Tutto scorre imperturbabile, fino a quando incontra la sorellastra Ludovica che mette in crisi le sue certezze e la sua scalata sociale. Trentenne nello spettro autistico, Ludovica irrompe nella vita di Flaminia con la forza di un terremoto, mettendo a nudo le sue ipocrisie. Esordio alla regia della stand-up comedian Michela Giraud, Flaminia è sceneggiato da lei stessa con Francesco Marioni, Greta Scicchitano e Marco Vicari. Il film, una produzione Eagle Original Content e Pepito Produzioni, è distribuito da Vision Distribution ed è al cinema dall’11 aprile.

È il suo esordio alla regia. Da cosa ha origine tutto?
Dall’esigenza di raccontare una storia molto forte. Avendo l’opportunità di fare questo film, ho preso il coraggio a quattro mani e ho lanciato il cuore oltre l’ostacolo. È stata una delle mie fatiche più grandi. A Roma c’è un murale di Francesco Totti con scritto: «Risk it all». E io ho rischiato tutto.

Il film ha due anime: comedy e drama.
Era la mia sfida, è stata una sorpresa. Avevo il timore di non risultare credibile e autentica dal punto di vista drammatico. Pensavo che avrei avuto molte difficoltà e invece è stato un viaggio incredibile.

Ci sono temi delicati: diversità, inclusione, apparenza. Accediamo a un’altra parte di Michela Giraud?
Nel film vediamo una Michela a 360 gradi, ma io sono sempre stata questa. Se non lo fossi stata non avrei potuto fare le cose che ho fatto. Solo che trattandosi di un linguaggio più intimo di rado ho avuto il coraggio di esporlo. Mi sono sempre nascosta dietro la battuta, come fosse un bel vestito.

A un certo punto arriva Ludovica.
E menomale! Auguro a tutti una Ludovica. Molte persone vivono una vita di carta e non lo sanno. Certo, con meno difficoltà, ma che vita è?

È Rita Abela ad interpretarla
Ho visto Rita per la prima volta in un corto intitolato Big. Aveva uno sguardo, un’energia, un incedere che era già gran parte di quello che cercavo. Rimango folgorata e capisco che è lei la persona giusta. Al provino ho cercato di portarla dove sapevo che poteva spingersi.

Un ruolo complicato
Io lo chiamo “il ruolo impossibile”. Rita ha fatto un lavoro incredibile. Si è data tantissimo. È andata in direzioni emotive molto dolorose. Ha pianto per me. Si è fidata di me. Le ho detto: «Questa è la mia anima, è tutto quello che ho. Custodiscilo e difendilo». E lei lo ha fatto. Io le ho dato tutto e lei mi ha dato tutto. A un certo punto ha dovuto mettersi a confronto con il personaggio reale a cui è ispirata in parte questa storia, che è mia sorella. Rita voleva attingere il più possibile da lei. Ma io le ho detto: «No, Cristina la vedi una sola volta. Altrimenti ti mangia la voglia di interpretare il ruolo». C’era un rischio troppo forte a livello emotivo. Quindi l’ho protetta. Le ho fatto osservare come parla, come si muove, le dita delle mani. Le ho chiesto di prendere solo questo e di farlo diventare suo.

Il film è in parte autobiografico. Ma il claim precisa: «Vi diranno che è una storia vera. Non credetegli».
Ma sì, perché non è importante. Ti deve arrivare l’autenticità di quello che vedi. Che importa sapere se Lucrezia (Lante della Rovere) è davvero mia madre, Rita mia sorella, Antonello (Fassari) mio padre? È inutile. Da spettatrice direi: chi se ne frega! Se no facevo un documentario.

Qual è stata la parte più difficile?
La sceneggiatura. Era troppo lunga e l’ho dovuta tagliare in tempi record. E anche la concentrazione. A livello emotivo, stare dentro al personaggio è stata una sorta di trance. Ma accedere a cassetti molto intimi che sono abituata a tenere chiusi ha fatto la differenza.

Che lavoro è stato?
Mi sono lasciata andare, mi sono detta: ci sono dentro, aspetti della mia vita sono simili. Era importante comunicare l’autenticità della storia. Mi sento a mio agio nel raccontare ciò che parte da me. Ho vissuto situazioni simili, gioco molto sull’ambiguità vero-non vero. Ci ho sempre giocato: nella stand-up parto così.

E l’esperienza di dirigere?
Ho cercato di guidare la squadra su un tema che conosco senza dare nulla per scontato. Volevo portare dentro lo spettatore senza fare cose didascaliche o farlo sentire a disagio. Ho cercato di portarlo vicino a me, vicino al mio cuore, mirando a fare una cosa chiara come io avevo in testa.

Quindi le è piaciuto fare la regista.
Tanto. Bellissimo. Capisci cosa significa per un megalomane avere una troupe che esaudisce tutti i suoi desideri? È meglio del sesso. Non è vero che il regista è dietro la camera. Il regista è ovunque, fa dire e fare agli attori quello che vuole. È la più grande espressione del megalo- mane senza farsi dare del megalomane: quindi è perfetto per me!

Tre parole per descrivere il film.
Carnale, volitivo, innamorato.