Il clandestino, Edoardo Leo: «Mi piacciono i personaggi che falliscono e ripartono»

Intervista a Edoardo Leo che, dopo anni, torna alla serialità televisiva

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Il clandestino

Un ex ispettore capo dell’Anti-terrorismo amato e rispettato da tutti, ha abbandonato la polizia dopo che Khadija, la sua compagna, ha perso la vita in un attentato terribile. Inizia così la serie in dodici episodi Il clandestino, una coproduzione Rai Fiction e Italian International Film – Gruppo Lucisano, prodotta da Fulvio e Paola Lucisano. Scritta da Renato Sannio, Ugo Ripamonti, Michele Pellegrini e diretta da Rolando Ravello, è in arrivo dall’8 aprile su Rai 1. A vestire i panni del protagonista, in una Milano dai mille volti, è Edoardo Leo, al fianco di Hassani Shapi, Alice Arcuri, Fausto Maria Sciarappa, Lavinia Longhi, Mattia Mele, Michele Savoia, Isabella Mottinelli, Tia Architto, Simone Colombari.

Edoardo, chi è dunque questo Clandestino?

Luca Travaglia è un personaggio interessantissimo. L’ho trovato tale fin dalla prima lettura. Questa serie è un condensato di cose che mi piacciono. Innanzitutto c’è una persona che ha avuto un grande dolore. E che decide di ricominciare la sua vita. Negli anni ho fatto una specie di epopea dei falliti. È accaduto in molti film, con sfumature diverse. Mi piace interessarmi a chi decide di ripartire. E Travaglia, in tal senso, è perfetto. Inoltre lo fa in una serie che mischia crime e commedia, una parte di action e una visione abbastanza particolare di Milano. Ci sono tanti elementi di originalità in questo progetto. La sfida è stata quella di provare a rendere Travaglia simpatico, farsi sì che il pubblico potesse tifare per lui. Nonostante il suo caratteraccio.

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Vi muovete in una Milano dalle mille lingue e sfumature. Dove, per un motivo o per un altro, sono tutti clandestini. Spesso la finzione ben rappresenta mondi che fingiamo di non vedere.

È assolutamente così. Le città spesso sono fatte da centri concentrici: più si va in periferia e più la situazione cambia, evolve. Milano invece è particolare, è un unicum. Abbiamo cercato di raccontare le due anime che convivono in lei, anche nelle zone più centrali. C’è la Milano meravigliosa, ricca, elegante, ma anche quella degli ultimi. Quella di coloro che cercano di emergere, di sopravvivere. Pur essendo perfettamente integrati, si sentono comunque dei clandestini.

C’è una domanda che torna spesso nella serie. Conosciamo davvero le persone, anche quelle che ci sono più vicine?

Niente è come sembra. Ogni personaggio ha un lato oscuro e uno positivo. E a volte coincidono. Questo consente, in una serie così lunga, di lavorare tridimensionalmente sui personaggi. Li rende interessanti perché non sai mai cosa aspettarti. Il clandestino

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Come sei diventato Luca Travaglia?

Gran parte dell’opera la devo a Rolando Rovello, che è un fine direttore di lavori e, anche in questo caso, lo ha fatto in modo molto accurato. Non smetterò mai di ringraziarlo. Poi c’è stata una preparazione importante che riguarda le lingue (Leo nella serie parla arabo e inglese, ndr) e poi ho dovuto imparare alcune arti marziali. Quando giravamo a Milano, ho attraversato a lungo la città a piedi, da solo. Me ne sono andato realmente sui Navigli per conto mio. Per scelta non ho voluto andare in albergo ma ho preso una casa, per stare in autonomia. Ho cercato, nei limiti del possibile, di ricostruire la vita di Travaglia. Milano è una città nella quale ci si può nascondere abbastanza bene. Il clandestino

A noi spettatori i tuoi personaggi restano spesso nel cuore. Capita anche a te? Come riesci a lasciarli e a ributtarti, con la stessa convinzione, in altri sempre nuovi?

Come ti dicevo, cerco sempre di fare un lavoro accurato, di preparazione per un personaggio. Ricostruisco la sua vita fin da quando era bambino, immagino e studio aspetti che non si vedono ma stanno dentro la sua figura. La lavorazione di Travaglia è stata molto faticosa. Non voglio essere frainteso perché i veri lavori faticosi sono altri e io che li ho fatti lo so bene, però ti confesso che non è stato semplice riemergere dalla sua ombrosità, dalla sua scontrosità. Per questo, quando abbiamo finito di girare, a maggio dello scorso anno, ho deciso di prendermi un anno di lontananza dal set e l’ho rispettato. Ho intrapreso questo lungo viaggio, nei teatri italiani, con il mio spettacolo.

Ah…

Si, avevo bisogno di ricaricarmi, di girare l’Italia, di incontrare le persone. Dopo tutta quella solitudine è stato come se dovessi riappropriami del contatto col pubblico. Mi sono preso questo tempo anche per pensare, per scrivere, per capire quale sarà il mio prossimo progetto. Intanto a novembre uscirà il film Non sono quello che sono. È la mia nuova regia, con la traduzione integrale dell’Otello di Shakespeare in dialetto.

Sembri muoverti con grande agilità fra teatro, cinema, tv. C’è una delle tre dimensioni che prediligi?

Non c’è una preferenza. Sono lavori molto diversi, che mi piacciono tutti e che necessitano di tempi molto diversi. Però fingerei se non ti dicessi che mi sento a casa sul palcoscenico. Resto un commediante. Il teatro è casa, un luogo che mi calma l’anima.