La Compagnia del Cigno 2 – Intervista ad Alessio Boni

Conversazione con uno degli attori più amati dal pubblico italiano, parlando della seconda stagione della serie e della sua Bergamo ferita

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la compagnia del cigno 2 alessio boni

A dispetto degli occhi di un azzurro glaciale che tende al verde, e dell’aspetto che lo fa assomigliare a una sorta di Apollo divino incurante delle questioni umane, Alessio Boni è uno che si anima. Lo senti accendersi, anche dall’altro capo della cornetta, quando racconta i progetti a cui partecipa, i personaggi a cui presta volto e voce, le riprese ai tempi del Covid-19.

Aveva già mostrato questo spirito sanguigno nella prima stagione de La Compagnia del
Cigno dove, accanto ad Anna Valle, impersonava il maestro Luca Marioni, personaggio
duro e crudo, intransigente e temuto dai suoi alunni. Un personaggio che a partire dall’11
aprile e per sei serate su Rai 1, si prepara a reinterpretare in una seconda stagione ricca
di novità, per lui ma anche per i sette ragazzi che frequentano il Conservatorio di Milano
e che sognano di diventare dei musicisti. Ma Alessio Boni si anima anche quando parla di
arte, del mondo dello spettacolo e dei suoi lavoratori, e soprattutto quando si accenna a
Bergamo e a quello che ha vissuto durante la prima ondata pandemica. «Perché – afferma – io l’ho vista morire la mia gente. Se ci sei passato, non puoi fare finta di nulla».

Partiamo dalla serie in onda su Rai 1 da aprile. Dove ritroviamo il maestro Marioni e i ragazzi de La Compagnia del Cigno?

I protagonisti sono sempre questi sette ragazzi meravigliosi, le sette note dello spartito scritto da Ivan Cotroneo (il regista, che firma soggetti e sceneggiature con Monica Rametta, ndr). Sono loro che avanzano, anche perché questa seconda stagione è più introspettiva, entra nella psiche dei personaggi.

Può anticiparci qualcosa di più?

Arrivano fantasmi dal passato. C’è un’atmosfera quasi da thriller. Si arriverà anche a dubitare del maestro Marioni. Lui inizia la stagione in un modo diverso dalla precedente.
È sempre rigido quando si parla di musica. Rimane il “Marioni bastardo” (così lo chiamano i suoi studenti, ndr), perché è convinto che l’arte esiga tutto e abbia il diritto di farlo. L’unica differenza è che, rilassandosi sul piano personale, è più comprensivo nei confronti degli alunni. Diventa un po’ un “confessore”. Si innescano dinamiche più private con tutti i
protagonisti.

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Immagino che le riprese siano state effettuate dopo la prima ondata della pandemia, quindi con un carico emotivo e un’attenzione maggiori. Come era il clima sul set?

Siamo partiti con le riprese a febbraio e ci siamo fermati da marzo al 6 luglio 2020. Abbiamo ripreso solo allora: tutti tamponati, con due uomini dell’Asl sul set, gli operatori con le mascherine e i guanti, i parrucchieri e i truccatori con la visiera protettiva. È stato molto più difficoltoso e ci voleva più tempo per ogni cosa. A ottobre sono emersi un paio di
casi positivi, si è quindi fermato nuovamente tutto, per poi riprendere con il terrore di non riuscire a finire. Tutte le sere Cotroneo pensava: “E anche oggi l’abbiamo portata a casa!”. È stata una bella odissea. Merito anche del produttore (Indigo Film, ndr) che non si è tirato indietro.

I ragazzi della serie, grazie al gruppo e alla musica, crescono, trovano il coraggio di credere in se stessi e nel futuro. In generale, è un po’ il compito dell’arte. Da un anno siamo orfani di film in sala, spettacoli, musica dal vivo, mostre. Come vive questa assenza?

Siamo fortunati a vivere nel 2021. Quando è arrivata l’influenza Spagnola non avevano mascherine e morivano. E non c’erano nemmeno computer, Netflix e casse per la musica. Quando si vivono tragedie per rinascere c’è bisogno del bello. Per noi umani il bello è guidato dalle forme d’arte. So che non è dal vivo, ma andando sulle diverse piattaforme puoi vedere un’opera dal divano di casa, il concerto dei Queen a Londra o quello di Woodstock, o ancora leggere un libro meraviglioso. L’arte, soprattutto nel primo lockdown, non ci ha fatto cadere in una grotta buia.

Almeno una cosa da salvare…

Io non ho mai letto così tanto e visto così tanti film. La tragicità del periodo non si discute, ma ognuno dovrebbe viverlo come un tempo sabbatico per interrogarsi, porsi domande come: Alessio ti piace ancora fare attore? Che uomo sei diventato? Prendiamo questa epoca per capire cosa fare dopo, per migliorare. Credo che l’umanità cambierà. Rimarrà una comprensione generica e una diffidenza di fondo. Se non hai vissuto questa pandemia, non ci pensi. Ma se, come me, hai perso una zia e tanti amici, non puoi fare diversamente.
Io l’ho vista morire la mia gente. Anche quando verrò vaccinato penso che terrò la mascherina come forma di rispetto per gli altri, soprattutto per le persone più fragili.

Lei è bergamasco. La sua città è stata l’epicentro della prima ondata. Come vede Bergamo a un anno da quelle immagini strazianti che l’hanno portata all’attenzione del mondo?

La bazzico poco, quando torno vado a Sarnico dai miei e sto lì chiuso con loro. Da quanto sento però c’è consapevolezza per ciò che è stato, nello sguardo c’è ancora timore, c’è molta più attenzione che in altre città. Fa parte dei bergamaschi rimboccarsi le maniche tirare fuori quel “mola mia”. È parte di noi. Sono orgoglioso di questo. Quando guardavo le immagini di quei volontari e alpini che, lo scorso anno, hanno allestito in fiera un ospedale da campo, avevo la pelle d’oca. Questa forza porterà i bergamaschi a sistemare e riequilibrare tutto. Ma c’è bisogno di pazienza, non dobbiamo mollare sui controlli e dobbiamo puntare sui vaccini. Chi non lo fa è folle! Possiamo sconfiggere il coronavirus solo tutti insieme.

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Torniamo al mondo dello spettacolo. In questi mesi spesso ha lanciato appelli a nome dell’intera filiera. Si torna in zona rossa e i prossimi mesi sono incerti. Davvero non si è ancora capito che L’arte è vita, per citare una petizione che l’ha vista fra i firmatari?

Faccio parte anche dell’associazione U.N.I.T.A. Siamo più di mille iscritti, che parlano e pensano per chi non conosce nessuno, per chi, ad esempio, vive di teatro e, avendo un contratto a intermittenza, non è protetto da nessuno. Questa gente è ferma dal 22 febbraio 2020. Stiamo dialogando con il Ministero perché si devono fare nuovi regolamenti e leggi. Non c’è un registro degli attori, non dico un albo ma un registro al quale accedere con determinati parametri e grazie al quale sopravvivere se capita qualcosa. Una signora come Mariangela Melato prendeva una pensione miserissima, perché la legge italiana dice che per avere una pensione minima devi lavorare per 25 anni consecutivi, 120 giorni all’anno. Un
traguardo difficile da raggiungere anche per i grandi nomi, figurati per gli altri! Il nostro è un lavoro particolarissimo e la gente non lo sa. Non ci pagano le prove. Gli incontri di promozione non sono conteggiati come giorni lavorativi. La situazione è drammatica: io sono fortunato ma ho amici che non riescono più a pagare l’affitto.

Quali sono i suoi progetti per i prossimi mesi?

Oltre a La Compagnia del Cigno su Rai 1, arriverà su Netflix, anche se non so ancora quando, un film che ho fatto con Marco Tullio Giordana. Sarà sull’omicidio di Yara Gambirasio, un caso che sconvolse non solo la Bergamasca ma l’intero Paese. E poi sto aspettando di ripartire con il mio Don Chisciotte, bloccato lo scorso anno, quando eravamo in piena tournée teatrale.

A livello personale, invece, quali sono gli obiettivi?

Il buon proposito è fare crescere in libertà e consapevolezza io figlio. Ho desideri in serbo, ma quando ne parlo, non si avverano (ride, ndr).
Quindi ho imparato a non rivelarli. E a incrociare le dita!