Alla fine degli Anni ’50, in un piccolo paese rurale del Sud Italia, Ciccio Paradiso (Riccardo Scamarcio), sposato con Lucia (Valentina Cervi) e con un figlio di 7 anni, sente che la realtà intorno a lui gli va stretta. Da una parte Ciccio sogna di cambiare le cose e si pone a capo della lotta dei suoi compaesani contro chi da sempre li sfrutta, dall’altra non resiste al richiamo del fascino femminile. Quando si innamora di Bianca (Gaia Bermani Amaral), figlia di Cumpà Schettino (Antonio Gerardi), perfido proprietario terriero che da anni sfrutta i contadini, le cose si complicano. Ciccio progetta di abbandonare la sua famiglia e fuggire con lei, ma in paese le voci girano rapidamente e nulla sarà più come prima.
Nella storia di questo amore impossibile e del sogno di ribellione e giustizia del temerario Ciccio, raccontati in L’ultimo Paradiso (dal 5 febbraio su Netflix), Riccardo Scamarcio si è calato in molteplici ruoli: è un doppio protagonista (interpreta anche Antonio, fratello gemello di Ciccio), ma anche co-sceneggiatore e produttore. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare che film state per vedere.
Scamarcio, voleva imitare il Jeremy Irons di “Inseparabili” con il doppio ruolo di Ciccio e Antonio Paradiso?
Non scherziamo, lui è un grandissimo attore. Questo è un film che parla della ricerca della propria identità di due fratelli che hanno fatto un percorso opposto: uno è rimasto al paese e se ne vuole andare, l’altro è andato via da tempo, ma non è riuscito a staccarsi dalle sue radici.
Per differenziarli, lei ha posto una particolare accento sulla postura fisica, sul peso della camminata. È così?
Il corpo di un personaggio è fondamentale, perché nasce dalla sua attitudine mentale: il diverso pensiero dei due personaggi cambia il loro approccio all’ambiente. Poi naturalmente ho inserito anche una diversa “sporcatura” dell’accento di Antonio che, essendo andato a vivere al Nord, ha perso la cadenza originaria.
Il tema del ritorno alle radici per lei ha un sapore autobiografico?
Per me il ritorno al Sud è una questione d’identità: è una cosa che mi riguarda da vicino perché con il mio lavoro me ne sono andato e sono stato in tantissimi luoghi diversi, ma per tornare sempre alle mie radici. Ad essere sincero non me ne sono mai andato veramente. D’altra parte è normale che nelle persone che restano siano forti i sogni di trasferirsi in altri luoghi, mentre più ti allontani più si fa forte in te il senso di appartenenza alle tue radici.
Ricciardulli è attore e regista. Nella sua carriera le è capitato spesso di essere diretto da colleghi attori. Come cambia il contatto sul set?
In effetti, se mi ci fai pensare, ho recitato anche per Rubini, Castellitto, Placido, Moretti e, naturalmente, Valeria Golino. Devo dire che la tentazione maggiore di questi registi maschietti è farti vedere la scena recitata da loro. Valeria è un caso a parte: ci conosciamo talmente bene che sa cosa può aspettarsi da me. Con Rocco invece il fatto che fossi anche il produttore ha reso la cosa diversa. Quando devi solo recitare, fai un po’ di preparazione, vai sul set e alle fine delle riprese saluti tutti, al massimo devi poi tornare per la promozione. Se sei produttore invece devi guardare al film con un approccio a 360°, riportando il tutto al suo senso più artigianale. Con Rocco la collaborazione è stata molto intensa perché abbiamo anche firmato insieme la sceneggiatura. Poi a me, prima ancora del risultato finale, interessa molto di più il “viaggio” che si compie insieme per realizzarlo.
Parlando di rapporti con registi/attori. Si favoleggia di scontri violenti tra lei e Michele Placido sul set de L’ombra di Caravaggio. Cosa c’è di vero?
Michele ed io veniamo dalla stessa terra, lui è il leone con tanta esperienza e io il leoncino che lo segue. Mi sono sempre posto con lui come un piccolo soldato di fronte al suo comandante che si prepara alla guerra. Poi sì, all’inizio ci sono stati due scontri frontali e dei battibecchi intensi, ma intimamente sapevamo cosa stavamo facendo, perché era la nostra lettura di Caravaggio. Insomma, le urla folli si sono risolte al momento che ha detto «Motore, Ciak, Azione!» e dopo la scena ci siamo detti: «Però non era male»; «Sì, scusa Michele»; «No, scusa tu». Un abbraccio e via.
Michele ha detto che tu ti sei «appiccicato» anche con Nanni Moretti in Tre piani e che questo è normale, perché anche a teatro sono cose all’ordine del giorno.
Quando gli intenti sono comuni e c’è la passione si è sempre complici anche quando si litiga. Poi Michele parla, ma io credo che i panni sporchi si lavino in casa.
La pandemia ha un po’ rallentato la sua proverbiale fame di set. Quando ci tornerà dopo questo film?
Per fortuna mi ero portato avanti con Tre piani, L’ombra di Caravaggio e La scuola cattolica, dove io sono stato solo per tre giorni sul set, ma quando Stefano Mordini mi chiama corro, perché la nostra è un’amicizia vera. Ora produrrò il nuovo film di Giuseppe Piccioni: erano anni che volevo lavorare con lui. Il film è ambientato ad Ascoli Piceno tra il 1938 e il 1940 ed è un’altra storia d’amore complicata, questa volta con Benedetta Porcaroli.