Nessun posto al mondo, Vanina Lappi racconta il suo doc in sala dal 7 maggio

Premiata al Festival dei Popoli e presentata al Trento Film Festival, la nuova opera della regista di "Sopra il fiume" (che abbiamo intervistato) è in tour per i cinema, dal Farnese di Roma (7 maggio) al Mexico di Milano (3 giugno). Al centro, il pastore Antonio Pizzuto e il conflitto annoso tra natura e cultura.

0

È una storia antica (quasi) come gli esseri umani e il loro rapporto con la terra e le sue creature, quella narrataci da Vanina Lappi nel suo secondo lungometraggio documentario, Nessun posto al mondo, Premio del pubblico al 64° Festival dei Popoli, presentato al 72° Trento Film Festival e dal 7 maggio in tour per le sale italiane: si comincia al Farnese di Roma (ore 19), proseguendo il 16 al Bloom di Mezzago, il 21 al Terminale di Prato, il 28 al Truffaut di Modena, concludendo il 3 giugno al Mexico di Milano.

Parlandoci di due pianeti forse inconciliabili, uno rappresentato dall’antieroe del film, Antonio Pizzuto, pastore dedito alla transumanza sul monte Cervati nel Cilento, l’altro da una società che parla la lingua delle istituzioni e della burocrazia, così distante da quella della natura e di chi ne vive più radicalmente cicli ed equilibri. Come Antonio, appunto, che rifiuta persino di mettere il collare ai suoi cani, malgrado le insistenze dei compaesani.

«Quello che mi interessava mentre giravo era vedere come questi due mondi si scontrano», spiega a Ciak la regista, che ha conosciuto il protagonista del doc (prodotto da Alessandro Borrelli per Sarraz Pictures e dalla stessa Lappi con la produzione creativa a cura di Serge Lalou e Les Film d’ici Méditerranée, sostenuto anche da Regione Campania, Film Commission Torino Piemonte, In Progress Milano Film Network e Atelier Milano Filmnetwork) durante la lavorazione della sua opera precedente, Sopra il fiume (Primo Premio al Filmmaker Festival di Milano): «L’ho incontrato casualmente al bar, che nei piccoli paesi dell’entroterra è il luogo dove si ritrovano tutti gli abitanti, e lui ha cominciato a raccontarmi di queste epiche transumanze».

Ovvero, le migrazioni stagionali dei pastori dichiarate nel 2019 Patrimonio Culturale Immateriale dall’UNESCO. E che però, testimonia Antonio, rischiano di soccombere ai paradossi della burocrazia, con l’imposizione di una tassa comunale di 200 euro a mucca per l’utilizzo del terreno, e l’impossibilità di accedere all’acqua potabile in assenza di una struttura, a sua volta non realizzabile trovandosi l’area all’interno di un parco.

«È come se le leggi dell’uomo non riuscissero mai a combaciare con le leggi della natura, non c’è comunicazione fra queste due realtà, ne scaturisce sempre un conflitto ed è molto difficile che riescano a camminare insieme», commenta al riguardo la regista, calatasi in questo contesto e nelle sue contraddizioni per i quattro anni in cui ha filmato le scene (ne sono seguiti altri due di post-produzione): «Per me il primo giorno di sopralluoghi coincide col primo giorno di riprese. Non ho mai chiesto esplicitamente a nessuno di fare alcunché, perché non mi piace programmare. Tendo a non prepararmi troppo, preferisco buttarmi direttamente nelle cose».

Un’immagine del film Nessun posto al mondo.

E anche noi veniamo immersi nella quotidianità di Antonio e nell’ambiente che lo circonda, tra emblematici primissimi piani e senza gerarchie fra l’uomo e le altre specie viventi: «La vicinanza fisica delle inquadrature è un modo per non guardare Antonio da fuori ma per stare al suo fianco, e per stare dentro le cose. Penso che il mio lavoro parta dall’osservazione ma l’osservazione non è un fine, mi piace pensarlo come un film dove io partecipo oltre ad osservare: sto in mezzo a una festa, in mezzo alla transumanza, ne faccio parte anch’io. E mi sono trovata a filmare paesaggi, persone, animali allo stesso modo, non facevo differenze, perché fanno tutti parte dello medesimo organismo, e quindi mi piaceva mostrare i volti come se fossero parte di uno stesso corpo».

Un senso di comunione rafforzato anche dall’abbraccio caldo e lirico dei brani di Caroline Shaw e Christopher Cerrone, in cui la filmmaker si è imbattuta durante la fase di montaggio delle circa 100 ore di materiale girato: «Sono musiche già esistenti e loro sono stati molto contenti che io le usassi. Per me il montaggio è una questione di ritmo e anche la musica è ritmo, sono un po’ la stessa cosa, ogni inquadratura è una nota».

Non a caso il doc alterna volutamente piani fissi sulla bellezza immobile della natura e sequenze dove la macchina da presa è in costante, inquieto movimento: «Lì a volte sei spettatrice di un paesaggio statico, silenzioso, ma quando sei vicino alle persone i tempi sono molto concitati: mi piaceva rendere questa differenza mentre giravo e poi dargli più corpo in fase di montaggio, tradurre questi due ritmi diversi che fanno parte della stessa sinfonia».

E mentre accompagna il viaggio di Nessun posto al mondo (all’anteprima romana ci saranno anche Antonio Pizzuto e Mazzino Montinari), Vanina Lappi ha già in mente un successivo lavoro, nuovamente ambientato nel Cilento: «Ho la sensazione, come era successo col film precedente, di avere ancora qualcosa da raccontare che non si è esaurito tutto».