Io sono tuo padre, la recensione

Omar Sy è protagonista del film di Mathieu Vadepied ambientato nella Prima Guerra Mondiale e in sala dal 24 febbraio per Altre Storie in collaborazione con Minerva Pictures.

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«Chi l’ha vinta questa guerra? Nessuno. La guerra non porta altro che morte e desolazione a chi la combatte»: le parole di Bakary Diallo (Omar Sy), protagonista di Io sono tuo padre (dal 24 agosto in sala per Altre Storie con Minerva Pictures, dopo aver aperto la sezione Un Certain Regard a Cannes 2022), risuonano dal 1917 del film all’Europa odierna, di nuovo avvitata nella spirale bellicista che si nutre di propaganda e ciniche manovre di potere producendo macerie, cadaveri e odio. Ed è allora necessario e inevitabile, per il cinema, tornare a riflettere su quella che fin da allora (ma invano) fu chiamata «inutile strage», dove i nazionalisti “orizzonti di gloria” (per citare un capolavoro a tema) si dissolsero nell’estenuante quotidianità di popoli ed eserciti sacrificati per brandelli di territorio ripetutamente sottratti o ceduti al nemico.

Tutto questo ce l’aveva mostrato perfettamente proprio Stanley Kubrick nel lungometraggio del 1957, con le sue lunghe carrellate fra le linee delle trincee, la cui perversa regolarità era spezzata dal fragore degli spari che facevano sussultare o piegare i soldati in fila. Prima ancora, c’era stato il grande manifesto pacifista di Lewis Milestone All’ovest niente di nuovo (1930) adattamento da Oscar del romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, da cui (anche) la più recente, omonima trasposizione tedesca (da noi purtroppo solo su Netflix) nuovamente premiata dall’Academy. Solo qualche anno fa, l’angoscia della “guerra di posizione” l’aveva restituita Sam Mendes con l’effetto piano-sequenza ininterrotto di 1917. E si potrebbe proseguire, citando le miserie grottesche del fronte di casa nostra, fra tronfi ufficiali e «morti di fame» (vedi Uomini contro di Francesco Rosi, da Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu) mandati al macello.

Tutto questo, però, è dato sostanzialmente per assunto dal film con la star di Quasi amici e Lupin: il regista Mathieu Vadepied (Learn by Heart), più che offrire l’ennesima rappresentazione della guerra in atto sul campo di battaglia, sembra voler approfondire le psicologie dei personaggi principali per tessere un racconto di formazione attraverso l’orrore del conflitto, il suo ambiguo richiamo sui più giovani e il tentativo di fuggirlo.

Adottando, in particolare, la prospettiva di chi a morire ci è stato mandato come preda e suddito del colonialismo che fu (e ancora, per molti versi, è): padre e figlio senegalesi, Bakary e il diciassettenne Thierno (Alassane Diong), rapito dal suo villaggio natale per essere arruolato a forza nel corpo dei fucilieri inquadrato nell’esercito francese (i “tirailleurs”, da cui il titolo originale dell’opera). Si conteranno, nel corso di tutto il Primo conflitto mondiale, duecentomila africani chiamati alle armi per la grandeur della potenza sfruttatrice, con trentamila vittime senza contare feriti e mutilati.

Ma ai coscritti si offre la promessa-ricatto di diventare «veri francesi», con tanto di pensione, se si distingueranno sul campo di battaglia. Ecco dunque che il giovane Thierno, mentre il genitore si arruola volontario per riportarlo a casa, si lascia sedurre dalla retorica militarista. Per cui le precedenti discriminazioni, di etnia e non solo, vengono apparentemente sospese (come già recitava il sergente Hartman di Full Metal Jacket: «Qui vige l’uguaglianza, non conta un cazzo nessuno!»), e col sangue del nemico ci si può conquistare persino un’inedita autorità nella gerarchia dei combattenti. Così, nominato caporale da un tenente bianco e guerrafondaio (ma anche lui, a sua volta, segnato dalla problematica condizione di soldato e “figlio”), il ragazzo arriva a comandare sul padre al fronte e a scontrarsi col suo proposito di diserzione.

Per questo la (vera) posta in gioco di Io sono tuo padre, ancor più che salvare la vita, sembra essere salvare un’identità culturale che rischia di essere violata, appiattita e annichilita dai disvalori dei padroni bianchi europei. Non pare un caso, allora, che la scena più efficace del film sia antecedente alla discesa al fronte, nel brano del sequestro in Senegal, dove la macchina a mano preannuncia lo sconvolgimento dell’iniziale quiete familiare per mano di demoniaci razziatori francofoni a cavallo (cui l’ellissi tra la notte e il giorno infonde una qualità quasi onirica).

Allo stesso modo risulta significativo che, in modo per certi versi incoerente coi suoi propositi, Bakary (un Omar Sy, anche produttore con Bruno Nahon, intenso e convincente in un ruolo estraneo a ogni ironia) scelga di rischiare la sua vita e quella di Thierno per recuperare il cadavere di un “fratello” caduto. Si tratta di non lasciarsi uccidere, è vero, ma nello spirito prima ancora che nel corpo.

RASSEGNA PANORAMICA
VOTO
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