“Elle”: intervista a Paul Verhoeven, il maestro dello scandalo

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Verhoeven riscrive (ancora una volta) la figura della donna, perché, come ci ha raccontato, la «Isabelle Huppert di Elle è meravigliosamente opposta e contraria»

 

Una donna, Michèle – splendida e splendidamente interpretata da Isabelle Huppert -, un passato oscuro, un ex-marito, un amante, un figlio, un’amica (molto) intima, un lavoro come supervisor in un’importante azienda di videogames e, divenendo la figura chiave, un violentatore, intrufolatosi dentro casa sua, dentro la sua vita, dentro le sue giornate. Dentro la sua testa. Perché, Michèle, la protagonista del nuovo film di Paul Verhoeven Elle, al cinema dal 23 marzo, donna all’ennesima potenza, personaggio destinato ad entrare nella storia del grande schermo (un po’ come tutte le icone femminili del regista olandese, a cominciare dalla Sharon Stone di Basic Instinct), intraprende con il suo stalker un rapporto di accennata complicità, che la porterà in un gioco sospeso tra humour e dramma.

Per il suo sedicesimo film Paul Verhoeven torna in Europa, si basa sul romanzo Oh… del francese Philippe Djian – sceneggiato per il cinema da David Birke – e, come sempre quando si tratta dei suoi film, adotta quella poetica pericolosa di chi sa che lo scandalo è il mezzo più veloce e diretto per arrivare agli occhi e alle orecchie del pubblico. E in Elle – applaudito dalla critica ma schivato dagli ultimi Oscar – Verhoeven tira fuori tutto se stesso, il suo stile che non ammette morale o moralismi, dipingendo una protagonista che non ha paura di apparire diversa, opposta, qualcuno direbbe sbagliata, altri direbbero addirittura spaventosa. Eppure, come lo stesso regista ci ha confessato nel nostro incontro, anche «fortissima».

Verhoeven, il film prima di essere girato in Europa, doveva essere prodotto negli USA. Come mai questo cambio di rotta?

Si possono formulare delle ipotesi, in base ad una serie di situazioni scaturite da una storia non facile. Forse il terzo atto del film, molto complesso, ha scoraggiato l’ideale cinematografico degli States, che non ci hanno aiutato in questa produzione. E la successiva esclusione dagli Oscar (una sola candidatura, andata ad Isabelle Huppert ndr.), nonostante i Golden Globe vinti (Miglior Film Straniero e Miglior Attrice Drammatica ndr.), è senza dubbio un fatto politico.

Com’è stato portare le complesse emozioni del libro sul grande schermo?

C’è complessità perché la protagonista è altalenante. Giochiamo con le situazioni, mischiando finzione e realtà, gioco e serietà, senza dare allo spettatore una riposta precisa o netta, sottolineando le varietà della vita. La scena che apre al finale, tra l’altro, contiene proprio tutti questi elementi.

Quanto è stato cambiato del libro originale in fase di scrittura?

Ho inventato poco, insieme allo sceneggiatore David Birke siamo stati fedeli alle pagine del libro.

Un film capace di turbare, ma anche di far sorridere per la molta ironia.

L’ironia era già accennata nel romanzo. Il film, nello specifico, riesce a passare dalla violenza all’umorismo, fino a cosa si cela dietro le relazioni sociali. Ho accentuato lo humour perché non volevo realizzare un thriller, né volevo un’etichetta specifica. Del resto la vita non è classificabile sotto un solo genere, magari la mattina ridi e la sera piangi. Insomma, non volevo categorizzazioni.

Pare che nei suoi film lei è attratto da donne tormentate.

Parliamo di donne? In verità no, non sono attratto dalle donne tormentate, se si può parlare, in questo caso, di tormento. Del resto la Michèle di Elle è una donna che ha subito eventi fortissimi nella sua infanzia, scansando il vittimismo e il tormento. Possiamo dire che è una sopravvissuta, formata da un episodio terribile. Reagisce in modo opposto e contrario agli eventi. E, forse, nessuna  donna lo farebbe.

Nei suoi titoli c’è sempre una potente e personale visione di giustizia. Qui è possibile ritrovarla nel rapporto tra la protagonista e suo padre?

Forse, anche se non sono del tutto intenzionali le ”giustizie” in Elle. Osservo e basta, il resto lo fanno i personaggi.

Al contrario di Showgirl o di Starship Troopers, Elle è stato subito adorato dalla critica. Pensa che se fosse stato prodotto negli States il risultato sarebbe stato lo stesso?

Effettivamente la cosa ha funzionato: in Europa c’è più libertà produttiva, basta vedere cosa sta accadendo oggi in USA, chi è al governo. Prima che venissi coinvolto nel progetto, Isabelle era già interessata alla parte. Però volevano realizzarlo negli States, ma non si riusciva a portare avanti. Nessuna attrice contattata voleva la parte. Dopo qualche mese abbiamo deciso di riportare il film a Parigi, e molto, molto umilmente, siamo tornati da Isabelle, chiedendole se fosse stata ancora interessata. Con lei non ci siamo dilungati troppo sui vari aspetti della parte, ha voluto e accettato tutto quello che il personaggio comportava. Lei, quando crede in un ruolo, è estremamente audace.

Interessante anche il parallelo con i videogiochi, in questo caso alquanto violenti.

Non credo che ci sia correlazione tra un videogioco violento e una persona violenta. L’aspetto dei games, inizialmente, non era previsto, non volevamo darle questo lavoro, non era a capo di un’agenzia videoludica, ma come nel libro era direttrice di uno studio di sceneggiatori. Parlando con la mia famiglia è mi venuta in mente questa cosa dei videogiochi, proponendo allo sceneggiatore di cambiare un po’ la storia. Lui, fai dei videogames, ha accolto subito la proposta, avanzando una narrazione parallela alla storia principale.

Il suo prossimo progetto? Ancora al femminile?

Il mio prossimo film sarà ambientato in Toscana, in un monastero di Peschia, con due suore per protagoniste, durante il Medioevo. Titolo di lavoro Blessed Virgins, tratto da un libro, Immodest Acts, di un professore americano…

Damiano Panattoni

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